12 Years A Slave, lo dico subito, è un film perfetto. Lineare, equilibrato, armonioso. Privo di imperfezioni in ogni suo aspetto tecnico e artistico, dalla sceneggiatura ai costumi, dal montaggio agli effetti sonori. È perfetto, sì, e non potrebbe essere diversamente, perché l’ultimo film di Steve McQueen è, in verità, una rara e straordinaria operazione di marketing cinematografico. È un capolavoro a tavolino, proprio come quelle boy band che nascono attorno ad una costosissima scrivania in noce di qualche spocchioso produttore con il riporto. È la risposta furba alla domanda, un po’ ruffiana, bisogna ammetterlo, “Come fare a vincere tutto senza passare dal via?”
Ora, Steve McQueen è un cineasta di grande talento, il suo stile asciutto, freddo, minimalista che si porta dietro come patrimonio genetico le suggestioni e le storie di quel cinema del reale in cui l’Inghilterra ha fatto scuola per quasi un secolo con nomi come John Grierson e Ken Loach, la capacità straordinaria di raccontare la nudità fisica e spirituale, la vacuità del corpo e l’alienazione della mente, l’attenzione ai dettagli, alle forme delle luci e delle ombre nelle quali i suoi personaggi, vestiti sempre da ottimi attori, si muovono come spettri traditi dalla verità, sono tutti elementi che ne fanno un autore nel senso truffautiano del termine.
Ci ha abituati bene, nel 2008 con Hunger, primo lungometraggio e storia, vera, di Bobby Sands, leader della resistenza irlandese che in nome della libertà si lasciò morire di fame, insieme ad altri nove detenuti, a soli 27 anni nel carcere di Long Kesh, mentre la Lady di ferro tuonava in diretta tv: “Sands è un criminale. Ha scelto di togliersi la vita. Una scelta che l’organizzazione alla quale apparteneva non ha concesso a molte delle sue vittime”. Poi tre anni dopo con Shame, il racconto senza sconti di una discesa negli inferi, quella di Brandon, del bisogno di espiazione, della solitudine e dell’incapacità di stare al mondo se non accucciati sulle proprie angosce e inconfessabili paure.
Ci ha abituato a performance attoriali che sembrano richiamare un altro tempo e forse anche un altro modo di fare cinema, così la camera pedina impietosa il corpo nudo e il volto provato del suo attore feticcio, Michael Fassbender, le cui performance nervose ricordano quelle di Al Pacino nei primi film di Sidney Lumet o quelle di un Gian Maria Volonté magnetico e aggressivo nelle pellicole di Elio Petri e Francesco Rosi. Ci ha costretto a lunghi piani sequenza, come i 17 interminabili minuti di confronto serrato tra Fassbender e Liam Cunningham in Hunger, ai tempi morti della vita persa tra le sbarre, i vagoni della metro, le masturbazioni sotto la doccia, il chiacchiericcio del ristorante, alla quasi assenza di dialoghi, al silenzio imbarazzante dei cattivi pensieri e degli amplessi.
È un regista che richiede una certa attenzione e impegno e il suo spettatore sa bene che non sono ammessi pop corn durante un suo film.
Era questo che ci si aspettava anche per la messa in scena della biografia di Solomon Northup, mirabile violinista di New York che nel 1841 fu ridotto in schiavitù e costretto ad un’odissea di 12 anni nelle piantagioni della Louisiana prima del suo ritorno ad Itaca, dalla moglie e dai figli. In fondo, è una storia facile, raccontata infinite volte sul grande schermo attraverso epoche e generi diversi, come il massacro degli indiani o la guerra in Vietnam, tutti mostri della cattiva coscienza a stelle e strisce.
Una storia facile che lo sguardo europeo di Steve McQueen avrebbe potuto trasformare, complicandola, mostrando la ferocia del male senza rappresentarla, appiccicando la camera sui volti dei protagonisti per strapparne l’anima, scegliendo un dettaglio e ingrandendolo fino a soffocare il resto, invece, finisce per impantanarsi in cliché visivi e meccanismi narrativi noiosi ma ben rodati, gli stessi di Mississippi Burning e Amistad, si perde tra le distese di cotone, la luce bianca delle case coloniali, le corde con cui si impiccano i “negri” disobbedienti, i gospel, la Bibbia dei predicatori, il sudore, il sangue. Mentre, il protagonista, l’inglese Chiwetel Ejiofor, con un’interpretazione debole e poco credibile, non riesce a trasportare lo spettatore nel suo personale e, insieme, universale inferno.
Bisogna aspettare quasi 80 minuti per avere quello per cui si è pagato il biglietto, un lungo e disturbante piano sequenza in cui emergono l’immancabile Michael Fassbender, nei panni del sadico schiavista Edwin Epps e Lupita Nyong’o, in quelli della schiava Patsey di cui Epps è ossessionato. Cinque minuti in cui la camera a spalla ondeggia tra la vittima e il suo carnefice, tra le corde che stringono i polsi e il nerbo, indugiando sulla pelle dilaniata dalle frustrate e sugli occhi di Epps, nei quali leggiamo la caduta senza ritorno, la morte, la perdizione, il coito interrotto di un amore che mai potrà essere corrisposto.
Le frustrate finiscono e noi torniamo a mangiare i nostri pop corn fino all’happy end, così insignificante e sbrigativo che nel ricongiungimento finale siamo già fuori a fumare la nostra sigaretta. E, tuttavia, 12 Anni Schiavo resta ed è un film perfetto, a cui non manca nulla per vincere un Oscar il prossimo 2 marzo, neanche un cast stellare, insieme mainstream e autoriale, ci sono i caratteristi Paul Giamatti e Paul Dano, il nuovo idolo delle fangirl, Benedict Cumberbatch, l’attore feticcio alla quale, è evidente da subito, è affidata la credibilità dell’intera pellicola e la sua immagine fuori, la nuova e bella promessa, le vecchie glorie come Alfre Woodard e persino, un cameo di Brad Pitt, che è anche produttore con la sua Plan B Entertainment.
C’è che è un film che parla di schiavi, ma che per la prima volta vede dietro la macchina da presa un regista di colore, c’è che è stato presentato in anteprima nei festival americani e non in quelli europei, che pure in passato avevano fatto la fortuna e il curriculum di McQueen, c’è che ogni volta che si parla di segregazione, razzismo, violenza, schiavitù, diritti violati, l’America, soprattutto quella di Obama, non può restare indifferente, c’è che certi debiti non finiranno mai di essere pagati, c’è, infine, che la teoria sociologica della profezia che sia autoavvera a Los Angeles è il mantra degli uomini del marketing, così, ripetendo fino alla nausea che siamo di fronte ad un capolavoro, finirà per diventarlo.
Per questo è un film perfetto.
Chiara Ribaldo / Bake Agency