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Alessandro Ribaldo. Nel miglior mo(n)do( im)possibile

Una volta Andy Warhol disse che non avrebbe mai voluto essere un pittore, piuttosto un ballerino di tip-tap. Con buone probabilità sarebbe stato un ballerino straordinario, perché l’arte non è un prodotto, piuttosto un’inclinazione, un’attitudine dell’animo, una propensione verso l’esistenza, persino nel suo aspetto più grottesco e malconcio. L’arte si fa da se, che lo si voglia oppure no.

Se non avesse voluto fare l’artista, Alessandro Ribaldo, giovane graphic designer siciliano, immaginiamo, avrebbe girato il mondo con una macchina fotografica in cerca di attimi. Avrebbe rubato smorfie, silenzi, labbra, pezzi di mare, vecchie scatole, centimetri di rabbia, lembi di lenzuola stropicciate, briciole di pane. Avrebbe chiacchierato a lungo con lo “scemo” del villaggio, seduti su una panchina in un lungo pomeriggio estivo, si sarebbe fatto raccontare tutto, ogni aneddoto, perché gli scemi veri, quasi sempre, sono altri.

Se non avesse voluto fare l’artista, avrebbe fatto il poeta o, forse, l’esploratore. Invece, i suoi viaggi sono fogli elettronici, gigabyte di sogno e follia, tavole di colori con milioni di sfumature, sono software in continuo aggiornamento, tracce sonore, vettori, linee, ombre, gradi di saturazione e di prospettiva. Sono notti insonni, tazzine di caffè, tabacco ovunque, mal di schiena e crampi alle mani. Sono viaggi nella natura umana, nel non sense emozionale, tra i mostri generati dalla realtà che ci ostiniamo ad ignorare. Amore, sesso, odio, religione, politica, lotta di classe, ingiustizie. Sono viaggi nella verità e, per questo pensiamo, non vi piaceranno. “Attenzione, le immagini che vedrete potrebbero urtare la vostra sensibilità”, avverte con non poca ironia i visitatori del suo sito.

A 26 anni appena ha già un curriculum eccellente, molte mostre, un sito nuovo di zecca e abbastanza cinismo da sopravvivere in un paese che considera l’arte una mera velleità con cui non si mangia. Lui, che non è mai riuscito a tenere correttamente in mano una penna – “non è mica una vanga” gli dicevano a scuola – ma che con un mouse e davanti ad uno schermo può creare qualsiasi cosa riesca ad immaginare, ci racconta il suo lavoro e cosa avrebbe fatto, davvero, se non fosse diventato il talentuoso designer che è.

Nella serie “Wet Dreams” oltre ad un forte riferimento all’aspetto più carnale della sessualità, racconti soprattutto il corpo e il piacere femminile, è una scelta di natura estetica?

Ci sono soltanto due cose che riescono a togliermi il fiato: il mare e le donne. Immensa e disarmante natura, credo che non si possano paragonare a nient’altro. Quindi sì, è senza dubbio una scelta di natura estetica, ma è ancor di più una forma di egoismo, perché quando racconto le geometrie femminili trovo più eccitante  il processo creativo che il risultato finale.

Qualcuno potrebbe trovare i tuoi lavori pornografici? C’è l’orgasmo, la masturbazione, le orge? Ma in fondo non è quello che l’arte fa, mostrarci ciò che nella quotidianità celiamo attentamente?

Se tra la pornografia e l’erotismo esiste una sottilissima linea di confine, io credo di potermi piazzare proprio lì in mezzo, in bilico tra uno schiaffo ed una carezza sul culo. Oggettivamente non trovo che le mie “porno_grafiche” siano così estreme o volgari da poter far indignare qualcuno, anzi io credo siano soltanto degli innocui esercizi di stile.

Oggi siamo circondati dalla pornografia, soprattutto da falsi miti e luoghi comuni sul sesso, siamo molto diseducati da questo punto di vista, a volte abbiamo aspettative molto alte, forse a causa del bombardamento mediatico a cui, volenti o nolenti, siamo sottoposti, che finiamo per  perdere di vista la naturalezza della sessualità, dimentichiamo facilmente che la realtà, molte volte, è di gran lunga migliore della fantasia, di certo più sorprendente.

Molte delle protagoniste dei tuoi lavori sono donne, in questo sei molto tradizionalista, nonostante le “tue” donne siano spesso senza un volto e senza espressione. Come mai?

Dare un volto o una personalizzazione a queste donne rovinerebbe il mistero che le avvolge; quello che disegno è quello che rimane di tutte le donne che incrocio per strada, nei miei pensieri, quasi come se fosse la scia lasciata da un aereo. Mi piace creare una situazione così contrastante, elogiare qualcuno senza rivelarne l’identità. Esaltazione e demolizione insieme nella stessa opera e per la stessa donna. Non è quello che, in fondo, fa la vita?

Un’altra sezione delle tue opere è dedicata alla religione o meglio alla delegittimazione dei suoi idoli e riti, ci sono suore che sniffano coca, Padre Pio astronauta, un dio che diventa cane. È un invito a perdere la fede?

Io ho solo 26 anni, quindi molto probabilmente non ho ancora imparato come si sta al mondo, ma di certo ho capito quali sono le cose del mondo da cui non devo imparare. Bisogna aver fede in se stessi, prima di credere a qualunque altra cosa. La mia è una provocazione verso quel gran tendone da circo che è la società in cui viviamo, ad esempio la cialtroneria del miracolo italiano o il becero perbenismo cattolico contrapposto agli eccessi, oramai non più così nascosti fortunatamente, del jet set ecclesiastico. Sì, sì ho proprio detto jet set.

Quale tra i lavori che hai realizzato è figlia di un senso profondo di ribellione verso il sistema attuale? Credi che la gente debba avvicinarsi più all’arte anziché ad uno schermo per alimentare la propria coscienza civile?

Credo innanzitutto che la gente debba avvicinarsi a mezzi di comunicazione e di informazione alternativi e cercare di arricchire le proprie fonti, non solo tv, ma neanche solo internet come tempio della verità assoluta. L’arte può senz’altro contribuire in maniera più efficace e talvolta più piacevole ad accendere la nostra coscienza civile, può mostrarci la bellezza, l’orrore, la compassione, e di nuovo la bellezza. Può educarci al bello, nel senso più ampio e umanista del termine.

Molti dei miei lavori sono la conseguenza di un senso di repulsione verso il sistema e la storia, da cui mi pare evidente non impariamo mai nulla.  Ho raccontato la follia della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki,  la Primavera Araba, l’omofobia di Putin durante le ultime Olimpiadi in Russia, la guerra per il petrolio in Libia. Quella più significativa per me è “Les Amants in Guantanamo”, omaggio all’opera di René Magritte, dedicata al trattamento disumano riservato ai prigionieri di Guantanamo da parte dell’esercito statunitense. Non chiedermi le ragioni di questo accostamento, ad un’artista non si fanno domande del genere. Di certo è un invito al ritorno all’umanità, all’amore e al rispetto per l’altro.

 

L’arte può essere celebrativa o provocatoria, quella moderna e contemporanea gioca con i luoghi comuni, le credenze, i valori per scardinarli e ricomporli costruendo nuovi significati. Quando lavori ad una grafica quanto pesa l’elemento provocatorio? Ma soprattutto credi che oggi, nell’arte, sia ancora possibile provocare?

Certo che è possibile, soltanto che oggi è molto difficile ed è quello che fanno in molti anche se sono in pochissimi a riuscirci senza cadere nella banalità o nella volgarità. Se non lo sai fare, se il messaggio non è inequivocabilmente forte e condiviso, ti si ritorce contro,  ci vogliono grande stile e intelligenza per provocare davvero, altrimenti è inutile, è una provocazione fine a se stessa che non colpirà nessuno. Gente come Toscani, Cattelan, Banksy, Blu, solo per dirne alcuni, beh, loro ci sono riusciti e continuano a farlo.

Ci racconti il tuo processo creativo? È vero che di notte si crea meglio?

Il mio processo creativo è imprevedibile, salta fuori quando meno me lo aspetto e sì, mi capita soprattutto di notte. Io me lo immagino come un fiume in piena che in slow motion divora le case, le strade, la luce sbagliata sulle cose, per me diventa tutto più chiaro, luminoso, dentro di me tutto scorre in maniera più fluida, lo definirei un caos ordinato. Per me è una sofferenza enorme non potermi sempre lasciare andare a “questa nuotata con me stesso”, se la mattina non dovessi andare a lavoro avrei di certo creato un milione di cose.

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Mi limito ad osservare la realtà e tutto quello che mi circonda, cercando però di guardare tutto da angolazioni diverse, cambiandone i connotati. La fonte d’ispirazione più grande è senz’altro quello che riesco a ricordarmi dopo un sogno o meglio un incubo. Gli incubi sono senza dubbio materia intangibile di un altro pianeta. E naturalmente c’è la musica, vi lascio volentieri la mia playlist: Friend of the Night

Oltre ad essere un artista, sei un grafico pubblicitario, ora, in giro per una città come Roma ci sono manifesti che pubblicizzano qualsiasi cosa, il più delle volte il risultato è approssimativo e il messaggio poco chiaro. quali gli ostacoli che si incontrano? È vero che il committente è il nemico numero uno?

Sembra un paradosso ma il paese che ha dato i natali ai più grandi artisti della storia e ai grandi esponenti della comunicazione visiva, del design e della pubblicità negli anni dal secondo dopoguerra a tutti gli anni ottanta, è anche il paese che nel 2014 fatica ad imporsi nel mondo della comunicazione internazionale. In Italia oggi non c’è una vera e propria cultura dell’immagine, manca una cultura manageriale adeguata, manca lungimiranza, fiducia, voglia di rischiare da parte di chi ha il capitale. Quest’assenza si traduce, nella maggior parte dei casi, in superficialità ed approssimazione, in contenuti vecchi, ripetitivi, sicuri, noiosi. Spesso sono gli stessi committenti a non avere la minima idea dei ruoli e delle competenze necessarie alla realizzazione di una campagna pubblicitaria. Così, in molte occasioni, il designer, che, invece, ha uno sguardo attento, un approccio fresco e dinamico (perlomeno si spera) è considerato un mero esecutore, un operaio, lo smanettone a cui chiedere “mettimi il logo più grande ma senza che si veda troppo”. Ecco, oggi la pubblicità in Italia difetta di un confronto costruttivo e rispettoso tra le parti.

Oggi secondo te qual è lo stato di salute della pubblicità. È vero che siamo molto indietro rispetto ad altri paesi europei?

Il peso della cultura cattolica in Italia, a mio avviso amplificato dalla presenza, fisica, del Vaticano, ha senz’altro influito in negativo sullo sviluppo del linguaggio pubblicitario, che non riesce ad essere, se non in rare e fortuite occasioni, in anticipo su valori e modelli culturali. Basta guardare gli spot di altre paesi, dall’automotive alla telefonia, per rendersi conto del divario enorme tra noi ed il resto d’Europa.  Così siamo in fibrillazione per l’ultimo spot Findus in cui viene rappresentata una coppia omosessuale, dimenticando lo scivolone di Barilla di solo qualche mese fa, e non ci rendiamo conto che siamo almeno dieci anni indietro rispetto a paesi come la Germania o la Spagna. Noi siamo ancora fermi a Carosello.

Andy Warhol voleva fare il ballerino di tip tap, tu? se non avessi fatto il grafico che cosa avresti fatto?

Come tutti i bambini ho avuto anche io voglia di fare il pompiere o l’astronauta, poi un giorno ho deciso che avrei fatto il benzinaio, perché vedevo tutti quei soldi contanti. Che ingenuo! Non lo sapevo allora che bisognava essere il petroliere per avere tanti soldi. Comunque, avrei fatto la stessa cosa che faccio ora, credo, anche se mi sarebbe piaciuto fare il regista o il musicista o semplicemente essere un grafico migliore. Ma anche il tip-tap in effetti…

Per saperne di più visita il sito di Alessandro

www.alessandroribaldo.com

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