All’età di 79 anni si è spento Amiri Baraka, uno dei maggiori intellettuali afro-americani del secondo novecento. Poeta, narratore, autore teatrale, saggista, critico musicale, editore e professore emerito alla State University di New York. Amiri è stato prima di tutto un attivista politico militante, vicino alle idee del marxismo, convinto e instancabile sostenitore dei movimenti di rivendicazione degli afroamericani.
Protagonista per oltre mezzo secolo della scena culturale americana con la sua voce sempre critica, sferzante e contro-corrente. Grazie alle sue poesie e alle celebri performance, ha riportato al centro della vita politica e sociale il ruolo dell’artista, proprio come negli anni ’60, ispirandosi all’avanguardia rivoluzionaria del free e della “new thing”. Sostenendo la scena jazz che ruota intorno all’AACM, l’Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago.
Delineare il ritratto di un artista complesso ed eclettico come Amiri Baraka non è affatto facile. Basti pensare che, nel corso della sua vita, oltre ad aver inciso numerosi dischi, ha pubblicato ben venti raccolte di poesie, due romanzi, otto saggi ed un numero imprecisato di racconti, opere che gli sono valse importanti premi e riconoscimenti. Come performer, la sua identità artistica è fortemente legata al mondo del jazz e più in generale, a tutta la musica afro-americana.
Agli inizi della sua carriera Le Roi Jones – in arte Amiri Baraka – frequenta gli intellettuali della beat generation, fonda la casa editrice Totem Press, è promotore della Black Community and Defense Organization, e diviene famoso nel 1963 con il suo saggio, considerato oggi, un testo fondamentale di tutta la letteratura americana, Il Popolo del Blues.
Nel suo libro Amiri disegna con un approccio sociologico e antropologico il ritratto del “nero”, da africano ad americano, da schiavo a cittadino, utilizzando come filo conduttore la libertà espressiva della musica afro-americana, in particolare del blues e del jazz: “Studiare il blues è come studiare la storia. L’estetica del blues non ha solo valore storico ma anche sociale”, scrive Baraka, “e deve riguardare il come e il cosa sia l’esistenza nera e il modo in cui si riflette su se stessa”. Dai canti degli schiavi alle brass brand di New Orleans, dagli spirituals allo swing, da Bessie Smith al Be-Bop di Charlie Parker, ogni artista, ogni musicista ha avuto un ruolo chiave nell’evoluzione della “musica nera” nel corso degli anni.
Con sua moglie, la poetessa Sylvia Robinson, in arte Amina Baraka, ha condiviso l’impegno civile attivo, declinato secondo i canoni della musica e dell’arte. Ne è testimone il loro libro The Music, un’affascinante raccolta di poesie e monografie sul jazz e sul blues. Nel 1965, dopo l’assassinio di Malcom X, Amiri decide di dare una svolta radicale alla sua vita, rompendo il primo matrimonio e trasferendosi ad Harlem dove fonda il Black Arts Repertory Theatre, una scuola che aveva l’obiettivo di portare la musica, la poesia e l’arte fuori dalle Università e per le strade; poi l’incontro con Amina e, nel 1968, la conversione all’Islam, la scelta di ribattezzarsi Amiri Baraka e di abbracciare la filosofia umanistica Kawaida, basata sulla relazione e sul dialogo costante con le diverse culture africane.
Nonostante l’età avanzata e le particolari condizioni di salute, negli ultimi anni Baraka è tornato sulle scene con l’autorevole personalità che lo ha sempre contraddistinto, firmando collaborazioni originali ed in linea con il suo particolare stile interpretativo.
La sua ultima performance italiana risale al 28 ottobre scorso, quando è salito sul palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma per il Roma Jazz Festival, in un reading accompagnato da René Mc Lean al saxofono contralto, D.D. Jackson al pianoforte, Calvin Jones al contrabbasso e Pheeroan akLaff alla batteria.
Di particolare importanza anche le sue recenti collaborazioni discografiche.
Tra queste, Akendengue Suite, un progetto realizzato con il Dinamitri Jazz Folklore Septet, il collettivo guidato dal vulcanico sassofonista di origini russe Dimitri Grechi Espinoza. Otto anni di lavoro e tre incisioni discografiche per un incontro suggestivo tra musica e spoken poetry, dove le liriche del poeta, sferzanti, contagiose e ipercinetiche, si appoggiano perfettamente sulle percussioni ed i fiati, in un sentito omaggio alla musica della Madre Africa, dal blues, alla psichedelia fino all’afro-beat.
Come ha detto lo stesso Amiri, “se sei in grado di suonare una musica che si pone in continuità con quella degli anni ’60, sarà una musica rivoluzionaria, anche se rappresenta l’evoluzione di un suono del passato”.
Un’impresa che è riuscita a pochi grandi musicisti, tra i quali il bassista William Parker, straordinario direttore musicale oltre che instancabile “cercatore” di nuovi talenti; con lui Amiri Baraka ha realizzato un progetto dedicato alle canzoni di Curtis Mayfield e soprattutto ai suoi testi che parlano del riscatto della classe nera, della presa di coscienza delle masse afro-americane, quale ad esempio People Get Ready, o raccontano la rivolta di Harlem del ’63, come Keep on Pushin’. Coscienza rivoluzionaria e recupero della tradizione. Prendi la tradizione e rendila nuova.
Questo per Amiri Baraka significava avanguardia e William Parker l’aveva capito, riuscendo a far rivivere una musica irripetibile come quella di Curtis Mayfield senza perdere il suo equilibrio tra rivendicazione sociale e poesia, forza comunicativa e semplicità d’ascolto.
Fabrizio Montini Trotti | Bake Agency