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Amo la radio

Ho avuto il grande vantaggio di nascere quando non esisteva la televisione, anzi, molti e molti anni prima.

Non potete immaginare, ragazzi di oggi, quanto fosse bello stare tutti riuniti attorno ad un cubo di legno in stile Chippendale a sentire di nascosto Radio Londra, a godere lo voci stupende degli attori che recitavano Pirandello.

A sentire Nicolò Carosio che gridava “Goal, quasi goal”, ascoltare il trio Lescano che cantava Tulipan, a sentire Nunzio Filogamo che ci salutava con il suo “Cari amici vicini e lontani…”.

A fare largo in sala da pranzo per improvvisare un dancing con i ritmi del “Ballate con Noi”, unico momento in cui si poteva limonare con una ragazza senza prendere un ceffone.

Certo, mancava il pane bianco, si faceva la fame, ma nei campi c’erano ancora le lucciole e i fiordalisi.

Negli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso la radio era IL contatto con il mondo, l’unico, in sostanza.

Ho amato l’orchestra di ritmi moderni del maestro Ferrari, un po’ meno quella di Cinico Angelini, ma si salvava grazie al due Fasano.

Diedi lezioni di chitarra ad una delle due gemelle, non ricordo se Dina o Terzina Fasano.

Dalla radio ho appreso l’amore per la musica.

Sentivo gli originali dei brani che mia madre, argentina, mi cantava al posto delle ninne nanne, quei bolero e quelle ranchere sud americane che ancora adoro.

Poi, lasciata Torino e sciolto il mio gruppo, dove a volte Paolo Conte suonava il vibrafono ed Enrico Rava la tromba, a Roma presi ad occuparmi di critica musicale, con rubriche sul jazz a Radio 2 e in qualche “radio libera”, come si chiamavano le emittenti che occupavano le frequenze non occupate dalla radio di Stato.

In RAI ero retribuito, mentre in una stazione romana di proprietà di un facoltoso commerciante di elettrodomestici venivo compensato “in natura”, nel senso che ricevevo in dono frigoriferi e lavatrici.

Quell’emittente trasmetteva, per avere maggiore potenza di segnale, da Monte Mario, in un ripostiglio di ramazze e secchi della spazzatura dell’Hotel Hilton.

Che tempi. Un po’ soffocato dalle norme in vigore alla RAI, dove tutte le trasmissioni dovevano essere presentate per iscritto al funzionario di turno, che le passava alla censura e solo dopo potevano andare in onda, mi divertivo a scansare le scope e i secchi della pulizia dello sgabuzzino dove andavo in diretta, di solito di notte, dove conducevo una trasmissione che avevo chiamato “My Favorites”.

Ovviamente, i miei favoriti erano LP di jazz, importati direttamente dagli USA.

Ricordo le risate che mi facevo con il ragazzo della consolle quando erano in onda Chet Baker o Miles Davis.

Noi, fuori onda, ci chiedevamo:

Ma alle due di notte, ci sarà qualcuno in ascolto? Pensa se non ci sentisse neanche nostra madre, che a quest’ora dorme.

Se non ci ascoltasse NESSUNO e noi come dei fessi parliamo nel buio della notte, al nulla…

Feci alcune trasmissioni con Maurizio Costanzo, quando era ancora in radio con Dina Luce e non aveva ancora scoperto gli ascolti televisivi del Costanzo Show.

Ma i due migliori ricordi sono, il primo, quando venni chiamato a presentare un programma di jazz in via Asiago, nella mitica sala A, sommersi da una folla di fan e, il secondo, a Parigi, in occasione del Festival du Son, dove Adriano Mazzoletti mi chiamò a presentare a Port Maillot un incredibile concerto organizzato dalle varie emittenti delle principali nazioni europee.

La sua stupenda idea fu quella di far scegliere un musicista da ogni nazione collegata, in diretta, con la sede parigina, con ognuno di loro pronto in una sala del proprio paese a suonare insieme agli altri in una grande jam session.

Andrée Humair era alla batteria, in sala a Parigi, mentre in ogni capitale d’Europa era collegato, in cuffia, un jazzman: una tromba in una città, il sax tenore in un’altra, il piano in un’altra ancora, cosi via sino a comporre una big band sparsa in Europa.

Ci si accordò per iniziare con un blues in Si bemolle, poi si proseguì con una serie di standard classici, di Cole Porter e George Gershwin.

L’effetto fu quello di una meravigliosa band molto affiatata che suonasse da Parigi.

In realtà erano singoli musicisti che suonavano a molte migliaia di chilometri l’uno dall’altro e che mai si erano incontrati prima.

Solo il jazz può fare simili miracoli.

E solo la radio può farvi arrivare il suono alle orecchie ma il calore al cuore.

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