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Man With The Movie Camera. La dispersione dell’autore nella Rete

 

Nel 1929 il regista sovietico Dziga Vertov realizza con la moglie Yelizaveta Svilova e con Mikhail Kaufman il film manifesto del Kinoglaz, L’uomo con la macchina da presa, raccontando per immagini la vita di un cineoperatore tra le strade e nelle case di Mosca e dintorni, dalle prime luci dell’alba fino al tramonto. La macchina da presa segue il quotidiano nel suo caotico svolgersi, riempendo ogni spazio possibile, arrivando a filmare persino se stessa, in uno dei primissimi esempi di meta-cinema.

Ottant’ anni dopo, l’artista americana Perry Bard ne fa un remake globale, collettivo, coinvolgendo il web e sfruttando l’usabilità del digitale.

D’altronde, se Kaufman con la sua cinepresa a spalla saliva sui treni e macchine in corsa, può farlo anche un semplice amateur con la sua camera digitale, piccola e leggera. La cinepresa è così sostituita da una più comoda e meno costosa camcorder o da un semplice smartphone, mentre il set si apre al mondo: Tokio, Tel Aviv, Roma, Rio.

Il lavoro di Bard sembra testimoniare una continuità, flebile ma persistente, tra il passato delle grandi rivoluzioni estetico-intellettuali e il presente imbevuto di software culture, tra le esperienze destrutturanti delle avanguardie storiche e l’audiovisivo 2.0.

 “Sembra assurdo, ma è un film perfetto per il Web. È stato girato in 3 o 4 città diverse dell’Unione Sovietica, e mi è venuto naturale pensare di rifarlo a livello globale. Inoltre, non ci sono scene più lunghe di 20 secondi, con un montaggio che sembra un video di Mtv. Se vivesse adesso, Vertov lo farebbe con un software” – Perry Bard, Daily Wired 27 febbraio 2009

Più che l’estetica dell’immagine, la sua qualità o l’evoluzione tecnologia, che restano comunque aspetti rilevanti del cambiamento, all’artista interessa il significato sociale di questa esperienza mediale collaborativa e dal basso.

Dopo aver scomposto, scena per scena, inquadratura per inquadratura, la sceneggiatura originale di Vertov adattandola al progetto di un film collettivo, Bard e il programmatore John Weir sviluppano un software open source capace di archiviare, mettere in sequenza e riprodurre in streaming le clip che filmmaker improvvisati di tutto il mondo inviano tramite mail. Nel caso, poi, in cui la stessa scena sia girata più volte, anche da autori differenti, il software è in grado di alternarle quotidianamente. Per partecipare, gli utenti possono andare sul sito del progetto (http://dziga.perrybard.net/) e scegliere da una lista di tag (ad esempio Abacus, Dance, Girl) la sequenza o la scena che vogliono rifare, con l’unico limite d rispettare la lunghezza originaria delle singole riprese.

Per sua stessa definizione, un film partecipativo non prevede la figura dell’autore, né conseguentemente contempla il concetto di paternità dell’opera, perlomeno non in senso tradizionale.

Negli anni Cinquanta, François Truffaut aveva dato, sui Cahiers du Cinema, la propria definizione di autore cinematografico, appellandosi a due requisiti fondamentali. Il primo è relativo alla presenza ricorrente di una tematica specifica. Il secondo ha a che fare con uno stile filmico distintivo ed un’estetica personale. Nel cinema collettivo, come quello della Bard, è proprio quest’ultimo elemento ad essere esplicitamente invalidato, reso nullo dalla pluralità di voci che compongono il remake, così come dalle potenziali infinite variazioni sul medesimo tema.

L’autorialità è disseminata nei singoli frame uplodati da utenti di tutto il mondo, diluita nelle 57 scene che compongono la storia. Se tutti sono autori, nessuno lo è davvero e Perry Bard è da considerarsi solo come referente di un lavoro ancora in divenire e che molto probabilmente non vedrà mai la sua conclusione. E d’altronde di fronte a progetti di questo tipo – commistione tra cinema, arte e web – vale l’invito di Henry Jenkins a considerare il processo creativo, più che il prodotto in sé.

Chiara Ribaldo | Bake Agency

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