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VENEZIA.
La Biennale 2017:
quella delle
“Grandi Mani”

Lorenzo Quinn, nel suo laboratorio, mentre realizza “Support“, più nota come “Le mani giganti“.

Trascurata dalla Biennale, ignorata (almeno fino ad oggi) dalla critica, snobbata dagli intellettuali, Support di Lorenzo Quinn (nato a Roma e italianissimo figlio di Anthony e della veneziana Jolanda Addolori), è la vera protagonista tra le opere presenti a Venezia, pur non facendo parte ufficialmente della 57esima Esposizione Internazionale di Venezia.

Sul traghetto ascolto conversazioni nelle quali risuona costantemente l’espressione Giant Hands. E quando poi passiamo davanti a quelle braccia che sbucano dall’acqua per sorreggere Ca’ Sagredo, un gruppetto di scozzesi dà inizio a un applauso che si propaga a tutti. Tra selfie, foto, video, fischi e ululati di consenso la gente è entusiasta di questa installazione, riconoscendola per acclamazione opera pop. Opera che finirà per caratterizzare, nel tempo, la Mostra, anche se lei non ha voluto o saputo accoglierla: questa 57° Biennale sarà inevitabilmente ricordata come “quella delle Grandi Mani Bianche”. Nonostante la contestuale presenza di un debordande Damien Hirst, alla riscossa dopo anni di auto e strumentale occultamento, che con Treasures from the Wreck of the Unbelievable (Tesori dal naufragio dell’Incredibile) occupa per intero gli spazi più prestigiosi: palazzo Grassi e Punta della Dogana.

Il mio mitico amico Nando der Gazometro avrebbe commentato: «E nun ce vonno sta’!». Per i non avvezzi a modi di dire romaneschi, traduco in linguaggio politicamente corretto: «L’establishment dell’arte non riesce a farsene una ragione di cotanto successo».

Biennale Arte 2017 Lo cunto de li cunti

A me, l’installazione di Quinn richiama le apparizioni fantastiche in laguna del Casanova di Fellini e più ancora le grandi favole epiche, dei grandi racconti come Lo Cunto de li Cunti di Pasquale Basile. Suggestioni e fantasmi, speranze e terrore, fascino del colpo di scena. Quelle mani che sbucano così improvvise dall’acqua sono lì ad aiutare, a sorreggere il palazzo e metaforicamente la città, il mondo, come sembra suggerire il titolo Support (Appoggio), o a sprofondarlo negli abissi delle nostre umane follie?

Insomma la suggestione è forte, e ben al di là probabilmente dello spessore artistico dell’opera, proprio in ragione del particolare contesto: Venezia, il Canal Grande, la Laguna. Dalla laguna ci si aspetta che possa affiorare di tutto: ciascuno di noi ci mette il proprio immaginario per completare lo spunto narrativo e provocatorio di Lorenzo Quinn.
Sì, mi schiero. Con quelli che applaudono l’opera ma anche la capacità di completarla con la soggettività del proprio immaginario.

Una Biennale ansiogena

«L’arte è di per sé un’alternativa, un atto di reazione, uno spazio di libertà e di espressione individuale che deve essere difeso in un’epoca piena di pericolose istanze regressive», spiega con semplicità e convinzione la curatrice di questa edizione Christine Macel alla stampa. Per questo non ha scelto un tema ma è partita dal grido Viva Arte Viva, per sottolineare il ruolo di responsabilità dell’artista nella società in geometrica accelerazione.

Biennale Arte 2017 Viva l'Arte Viva

Una spiegazione così lineare sarebbe piaciuta anche a Nando (e sì, devo citarlo di nuovo), che non apprezzò per nulla la precedente edizione della Biennale rimasta nella memoria come quella di «Das Kapital Oratorio»: una lettura dal vivo e continua dell’opera di Marx per tutti i sette mesi della Mostra. Il vecchio comunista Nando bocciò senza appello l’idea del curatore Okwui Enwezor: così Marx diventa la nuova Corazzata Potêmkin, incensata dagli intellettuali cazzari e invece spaccapalle per tutti gli altri! Di rosso in questa operazione c’è solo “er carpet” (sì, dodici anni come barman in America avevano lasciato tracce nel romanesco originario).

Se la prima sorpresa è che non c’è un tema, la seconda è l’altissimo numero di artisti debuttanti (e molti di loro sconosciuti) a questa Biennale 2017: 85 su 120 invitati dalla Macel. Perché «è importante mostrare le opere di coloro che finora hanno avuto meno visibilità. Tanti giovani, tanti debuttanti vuol dire proiezione verso il futuro».
La terza caratteristica di questa edizione è l’attenzione alla pratica d’artista, al loro fare quotidiano, all’auto narrazione di scoperte e frustrazioni. E infatti il sito della Biennale si è arricchito di video prodotti direttamente dagli artisti con i quali si auto raccontano.

E cosa raccontano? Soprattutto angosce, inquietudini, disorientamento. Inevitabilmente e coerentemente con i tempi. Gli attributi più ricorrenti nei commenti della stampa (verificate!) sono: inquietante, spiazzante, ansioso. Sono arrivato a pensare che se questa inaugurazione della Biennale non fosse stata assistita da splendide giornate di sole, il carico emotivo stimolato dalle opere mi avrebbe provocato un corto circuito umorale. Tanto per esemplificare: il leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale è andata, meritatamente a detta dei più, alla Germania con questa motivazione: «per un’installazione potente e inquietante che pone domande urgenti sul nostro tempo e spinge lo spettatore a uno stato di ansia consapevole». Appunto.

Biennale Arte 2017 Performance padiglione Germania

L’antidoto

Ma tranquilli, vi dico come scaricare l’eccesso di ansia consapevole.
Proprio all’uscita del Padiglione Italia, vi troverete nel Giardino delle Vergini. Dove non sarete accolti da intonse fanciulle bianco vestite, ma da suoni accattivanti che sembrano risucchiarvi verso un piccolo cratere verde. Là mollemente adagiata sull’erba e avvolta dalla luce lagunare di Tintoretto, l’umanità visitatrice si perde nell’armonia. Si tratta di un’installazione sonora di un’artista egiziano, Hassan Khan, al quale è andato il leone d’argento della giuria e la gratitudine di moltissimi visitatori, compresa la mia; non vi nascondo che tifavo per lui.

Poi, in questo stato di beatitudine, potete puntare dai Giardini all’isola di San Giorgio, sede della Fondazione Cini: dove troverete il costante confronto tra piccolo e grande nella mostra Minimmum -Maximum di Boetti, ma anche l’installazione esortativa all’inclusione di Michelangelo Pistoletto One + One makes Three. Michelangelo torna agli specchi, stavolta disposti in circolo intorno alle persone: se fotografi qualcuno, fotografi anche te stesso e guardando le foto non sai più se hai fotografato qualcuno o la tua/sua immagine riflessa.

Biennale Arte 2017 Marco Stancati

San Giorgio custodisce (attenzione: solo fino al 30 luglio!) un altro potente antidoto all’ansia: la stupefacente mostra Ettore Sottsass: il vetro. Testimonianza di come un grande designer e il miglior artigianato di Murano insieme creino l’incanto! Opere che fanno incontrare il vetro anche con la plastica e il policarbonato creando forme suggestive, volumi disegnati direttamente dai colori, forme che danno la certezza della bellezza a dispetto della fragilità del vetro. Ecco qualche citazione dove creatività e ironia sono davvero fuse insieme.

Padiglione Italia

Il titolo di quest’anno è Il Mondo Magico. E la curatrice del padiglione, Cecilia Alemani, ha fatto una scelta coraggiosa puntando su tre soli artisti: Roberto Cuoghi, Adelita Husny-Bay (è italo-libica) e Giorgio Andreotta Calò.

Perché questi tre e perché solo tre? Così risponde la curatrice: perché «le loro opere e i loro linguaggi sono globali ma intimamente legati alla cultura del nostro Paese»; perché l’obiettivo non era «rappresentare uno sguardo completo su tutta l’arte italiana: piuttosto si vuole guardare in profondità al lavoro di tre artisti dando loro spazio, tempo e risorse per presentare un grande progetto che consenta al pubblico di immergersi nella mente e nel mondo degli artisti».
Venerdì 12, in sala stampa, ci sono grandi aspettative per la premiazione del giorno dopo: la partecipazione nazionale viene definita potente, imponente, mistica, strepitosa, stupefacente… Una delle migliori di sempre. Provo a indagare la stampa estera: reazioni molto più tiepide. Su cinque giornalisti trovo consenso diffuso solo per l’installazione di Calò, pareri molto contrastanti su quella di Cuoghi, indifferenza per Adelita.

Le aspettative andranno totalmente deluse: la Giuria Internazionale ignorerà del tutto la presenza italiana.

Con queste premesse, sabato, m’inoltro nel padiglione Italia all’Arsenale dominato dal buio e le sensazioni sono subito inquietanti: una distesa di corpi, di poveri cristi (alla lettera, perché molti sono sdraiati su una croce) in un’atmosfera da laboratorio scientifico e nello stesso tempo cimiteriale e devozionale. In sintesi: una sorta di obitorio mistico-esoterico. Il titolo dell’installazione è L’Imitazione di Cristo. Una gentile addetta mi spiega che è una sorta di viaggio alla ricerca del vero volto del Salvatore dopo la morte, esponendo anche tutti i processi tecnologici e le macchine per la mummificazione e asciugatura estrema dei corpi. Abbondano infatti, nella penombra livida, sinistre macchine-forno con oblò che disvelano somatiche prosciugate che non riesco a guardare a lungo. Scatto alcune foto, cercando di evitare i dettagli (per me) insopportabili e mi affretto ad attraversare il tunnel di plastica lungo cui si aprono altre isolette di morti con e senza croci. D’accordo, l’arte deve spiazzare; ma non vedo l’ora di togliermi di dosso questa sensazione di morte e decomposizione. Non sarà facile: ché alcune sensazioni continuano a inseguirmi anche mentre sto scrivendo.

La Biennale d'Arte 2017: L’Imitazione di Cristo.

Passo alla sala limitrofa, avvolta anch’essa dalla semioscurità: mi siedo su una panca che al tatto risulta collosa (rivestita di silicone?) e comincio a seguire un video nel quale un gruppo di ragazzi trae spunto dai tarocchi per dissertare, soprattutto, sui temi della sostenibilità. La magia dei tarocchi come strumento d’interpretazione della realtà. È The Reading, l’opera della più giovane dei tre artisti: Adelita Husney- Bay. Peraltro, non rintracciando sorprendenti creatività nei dialoghi del gruppetto, dopo due minuti mi alzo e mi dirigo verso l’ultimo spazio.

Mi ritrovo in una selva di tubi Innocenti, ordinatamente disposti come a creare delle navate minimaliste. Tutto qui? No. Individuo sul fondo, con qualche difficoltà dato il buio, una scalinata metallica che porta a un livello più in alto. E lì, man mano che gli occhi si abituano alla semioscurità appare (sì, come per magia) un mondo rovesciato: la volta a capriate è riflessa e sembra di vedere dall’interno la chiglia di una gigantesca nave, gli abissi della volta. Riflessa da cosa? Non da un pavimento di specchi, ma da un pavimento d’acqua, sospeso a diversi metri da terra; acqua in totale coerenza con l’essenza stessa di Venezia. Del resto Senza titolo-la fine del Mondo è opera di un artista veneziano, Giorgio Calò, perfetto interprete delle sue umide e affascinanti radici.

Biennale Arte 2017: Senza titolo-la fine del Mondo di Giorgio Calò.

Elenco delle cose da non perdere

Ovviamente questa è la mia lettura della Biennale: quella di un comunicatore appassionato d’arte contemporanea, non di uno specialista, e di un visitatore che in tre giorni non è riuscito a vedere tutto.

  1. da non perdere all’Arsenale

    • il padiglione del piccolo Kosovo ha avuto una menzione speciale, Lost e Found se la merita tutta
    • il padiglione della Georgia, con la sua casa della pioggia come metafora della loro storia, è da vedere
    • la Nuova Zelanda presenta una spettacolare e cinematografica Pursuit of Venus

  1. da non perdere ai Giardini

    • l’irriverente (verso il potere) padiglione della Finlandia, dove personaggi che sembrano quelli del Pianeta Papalla, presentano in chiave sarcastica gli stereotipi del loro Paese
    • l’avvolgente e coinvolgente sala di registrazione del padiglione della Francia con performance sempre dal vivo e sempre sorprendenti
    • il gigantismo respingente del palloso (alla lettera: circondato da orrende deformi palle) padiglione inglese: una elefantiasi di elementi architettonici che sembra voler scardinare la struttura originaria del padiglione; sarà un effetto collaterale e metaforico della Brexit?
    • Il padiglione della Corea, che dietro un’insegna luminosissima da sala scommesse, nasconde una riflessione sul rapporto tra l’individuo e il sistema nel quale vive, attraverso piccole cose della quotidianità
    • La Russia, che non dice cose nuove ma le dice benissimo: le strategie di acquisizione del consenso e di controllo delle masse di poteri vecchi (politico-statali) e nuovi (politico-economici delle multinazionali). E non dimenticate di scaricate l’app Recycle Group: vi servirà non solo nel padiglione per coinvolgenti momenti di realtà aumentata, ma anche per folgoranti apparizioni nel cielo di Venezia!

  1. sul Canal Grande c’è una Biennale che non richiede biglietto d’ingresso

    • basta prendere il traghetto per imbattersi non solo in Support di Quinn, ma anche nella poderosa scultura di Damien Hirst davanti Palazzo Grassi, in The Golden Tower di Lee Byran all’altezza di campo San Vio, nel King Kong rosso acceso (tranquilli, c’è anche l’orso bianco) di Richard Orlinsky alla Salute e in Qwalaa di Pae White all’isola di San Giorgio
    • basta fare tappa a Dorsoduro per non perdersi Solo, la mostra di Thomas Braida con la regia di Caroline Corbetta (curatrice che apprezzo sempre di più): una caccia al tesoro fatta di rimandi e mimetizzazioni tra arte pop e arte tradizionale. Vi ritroverete nell’affascinante sequenza di sale del cinquecentesco Palazzo Nani Bernardo che iniziano e finiscono con due affacci da sindrome di Stendhal: uno senza respiro sul Canal Grande, l’altro su un profumato seducente giardino interno.

Biennale Arte 2017: vista da Palazzo Nani Bernardo.

Dimenticavo: la Germania ha fatto l’en plain, perché anche il leone d’oro per il miglior artista della Mostra è andato a un riconosciuto artista tedesco: il 78enne Franz Erhard Walther. Resta un po’ la sensazione di un premio alla carriera.

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