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Biennale d’arte 2019: quella maledizione è un fake!

Questo è il periodo nel quale, passati le feroci calure estive, cresce il flusso dei visitatori alla Biennale d’arte di Venezia: ancora due mesi pieni prima della chiusura del 24 novembre.

Quindi il momento adatto per offrire emozioni, punti di vista, suggerimenti di cose da non perdere.

I tempi “interessanti”

May you live in interesting times!: che tu possa vivere in tempi interessanti!

È il titolo della Biennale 2019, curata da Ralph Rugoff.

La citazione del titolo è attribuita dalla vulgata comune a un’antica maledizione cinese, che evocherebbe periodi difficili, disordinati, rischiosi. Fermo restando che pare proprio che tale attribuzione sia falsa, perché poi dovrebbe essere per forza una maledizione e non un auspicio?

Con questa interpretazione alternativa in testa, a me suona meglio “che tu possa vivere in tempi intriganti”: nel senso di non banali, non piatti, non scontati sia pure con le inevitabili rischiosità connesse a tempi in turbinosa evoluzione.
Premesso questo, c’è un altro aspetto paradossale: moltissimi visitatori, non parlo degli addetti ai lavori ovviamente, visitano questa 58esima edizione senza prestare attenzione al titolo o scordandosene un attimo dopo averlo letto. E quindi senza consapevolezza che le opere che vedranno sono strettamente connesse “ai tempi intriganti” che stiamo vivendo.

Ma del resto anche questo vagare senza consapevolezza non è certo estraneo allo spirito del momento storico che stiamo vivendo. Per gli apocalittici: è la maledizione (questa sì vera) dei nostri tempi!

In tempi di fake news, un falso anatema

In un’epoca nella quale la diffusione di fake news e di verità alternative – sostiene Rugoff – “mina il dibattito politico e la fiducia su cui questo si fonda, vale la pena rimettere in discussione i nostri punti di riferimento… ”

Si dà il caso che non sia mai esistito un antico anatema cinese, nonostante i politici occidentali lo citino nei loro discorsi da oltre un secolo… Ma i tempi interessanti che invoca sembrano essere di nuovo con noi.

La Biennale di Rugoff “è fondata sulla convinzione che la felicità umana deriva da conversazioni reali, perché in quanto animali sociali siamo spinti a creare, trovare significati e metterci in relazione l’uno con l’altro”.

Il significato delle opere d’arte non risiede tanto negli oggetti quanto nelle conversazioni prima fra l’artista e l’opera d’arte, poi fra l’opera d’arte e il pubblico, e poi fra pubblici diversi.

Insomma più importante di quello che è esposto è il vissuto della mostra: e cioè come il pubblico potrà servirsi dell’esperienza della visita per guardare alla sua quotidianità “da punti di vista più ampi e con nuove energie”.

E ora basta con la tirata socio filosofica che, in tempi di scritture brevi e attenzione millimetrata, rischio di abusare troppo della disponibilità di chi legge.

Human: il “fuori biennale” da non mancare

Una mostra collaterale alla Biennale è quella di Sean Scully; collaterale ma che, in un certo senso, ruba un po’ di palcoscenico alla 58esima Esposizione Internazionale.
È sull’isola di San Giorgio, proprio di fronte a San Marco, all’Arsenale e ai Giardini, luoghi dove pulsano le istanze artistiche più contemporanee e le inevitabili polemiche.

Qui invece, nella Basilica di San Giorgio Maggiore, Human fa respirare un ritmo diverso, intimo, profondo: una liberazione dello spirito che ci induce a scoprire le opere, sparse sapientemente anche nel coro, nella sagrestia, nei passaggi, nei cortili, avvolti in una sorta di estasi meditativa.

Un colore intensissimo quello di Scully, ma mai urlato, a cominciare dalla monumentale Opulent Ascension, l’alta torre collocata nella basilica proprio sotto la cupola.

Penetrante come un’ispirazione mistica che non ti aspetti; come quel libro di disegni preparatori appoggiato sul leggio del grande coro ligneo a mo’ di codice miniato.

Vorrei mettere in scena il viaggio dalla dimensione spirituale a quella fisica, e viceversa.

…Disse l’autore in un’intervista di qualche anno fa: a Venezia c’è riuscito perfettamente.
Sono conquistato da questa mostra che finisce con un trittico figurativo, omaggio di Scully a Van Gogh, dopo decenni di sola astrazione.

E sono ammiratissimo dello straordinario lavoro del curatore Javier Molins: la distribuzione delle opere, il loro dialogo con i diversi contenitori interni ed esterni, la fuga di forme e colori nel corridoio che ti porta per mano fino all’esplosione dei colori smaltati del trittico figurativo… Un’esperienza di cui tento di farvi giungere qualche refolo con una manciata di scatti.

I vincitori (e i miei preferiti)

E andiamo alla mostra ufficiale. Nella tabella vi riassumo i vincitori, ma dichiaro anche apertamente le mie preferenze che rappresentano la personale, e ovviamente opinabile, lista di suggerimenti per gli appuntamenti da non perdere. Per ragioni di spazio, ne commenterò solo alcuni.

Il Leone d’oro alla Lituania: una spiaggia in un interno

Sun & Sea è il titolo ufficiale.

L’annuncio che la Lituania era la vincente tra le partecipazioni nazionali ha sorpreso tutti in sala stampa, pochissimi lo avevano visto.

Riuscire a trovare il relativo padiglione ci ha fatto scoprire, sia pure con grandi difficoltà e navigatori pedonali in crisi, angoli meravigliosi di Venezia nell’intrico delle calli e di piccoli canali; all’improvviso si aprivano inaspettati ariosi campielli.

Perdersi in genere è frustrante; perdersi nella bellezza è esaltante.

Ed eccolo finalmente il padiglione lituano nell’Arsenale della Marina Militare.
In un interno, il collettivo “Neon Realism” ha allestito una spiaggia che il pubblico guarda dall’alto di un loggiato: figuranti al mare che fanno le cose che fa la gente al mare. Chiacchierano, mangiano, si spalmano di unguenti, stendono teli, si sdraiano sulla sabbia, si strizzano pedicelli, aprono e chiudono ombrelloni, passeggiano, giocano. E, in più, cantano, cantano tanto anche in coro.

Insomma un panorama conosciuto, banale, noto a tutti noi ma con un effetto di forte straniamento dovuto al guardarlo dall’alto, in un interno, in un momento che non ti aspetti.

Come ha motivato la Giuria? “Per l’approccio sperimentale del Padiglione e il modo inatteso di affrontare la rappresentazione nazionale…”; per “l’originalità nell’uso dello spazio espositivo, che inscena un’opera brechtiana…” ecc.

Nel giro di pochissimo il riferimento al drammaturgo tedesco è diventato un mantra rilanciato da agenzie e media, agevolato dalla rima-assonanza:

il padiglione della Lituania
è un’opera brechtiana!

A un collega, ennesimo ripetitore accanito del mantra, ho provato a chiedere se, secondo lui, la performance lituana fosse “brechtiana” nel senso di “trovatela strana, anche se consueta” (citazione da L’eccezione e la regola di Brecht appunto). Mi ha guardato perplesso, poi ispirato: “Ecco, brechtiana nel senso di Bertold…”. Ma va’!

Se decidete di vederlo questo padiglione, ricordatevi che la performance dal vivo è garantita solo il sabato e in alcune domeniche; altrimenti potete farvi un’idea con il video, ma lo straniamento ne soffrirà.

Mondo cane

È l’opera di Harald Thys e Jos de Gruyter per il padiglione del Belgio, il mio preferito. Padiglione presentato da molti media declinando la parola “horror” in tutte le salse: “l’horror intorno a noi”, “il paese delle meraviglie horror”, “il mondo dei manichini horror”.

Una presentazione deviante e semplicistica perché quel titolo (Mondo Cane) è solo un primo indizio, l’installazione popolata di manichini meccanici è più complessa e ben spiegata dalla curatrice Anne-Claire Schmitz.

Al centro della grande e bianchissima sala ci sono degli artigiani (panettiere, filatrice, calzolaio…) che svolgono coscienziosamente i rispettivi mestieri. Gli spazi laterali del padiglione sono “l’altro mondo”: delinquenti, zombie, psicotici, folli ed emarginati in genere. Rinchiusi in gabbie, separati da inferriate, ma calati sempre in quel bianco che omogeneizza i due mondi ma non li mette in comunicazione, ciascuno ripiegato su se stesso.

Una metafora della nostra società: usiamo la tradizione, rappresentata dagli artigiani, come uno scudo, una corazza protettiva e teniamo sotto chiave la devianza anche quando è solo diversità (ci sono anche i poeti, i visionari dietro le sbarre), impauriti come siamo e incapaci di alzare lo sguardo e trovare percorsi di relazione.

Sorridiamo all’inizio quando ci imbattiamo in quegli artigiani che sembrano iconografia da presepe con i loro movimenti a scatto da automi meccanici, poi vediamo le gabbie, guardiamo i reclusi e, leggendo le loro storie, cresce l’inquietudine.

Cresce progressivamente: i problemi sociali rimossi prima o poi ti presentano il conto.

Miglior artista: Arthur Jafa

Certamente condivisibile il Leone d’oro al poliedrico artista afroamericano, premiato come video artista, per The White Album, ma presente anche con degli enormi pneumatici incatenati (Big Wheel): metafora di violenza, schiavitù, lavoro durissimo da sempre chiesto ai neri prima nei campi di cotone e poi nell’industria automobilistica.

Nel video, Jafa mescola la denuncia della violenza razziale con la poesia del vivere, la tenerezza per i familiari, la solidarietà degli amici utilizzando, con un ritmo tutto suo, materiali di repertorio e originali.

Quello che resta è come un appello alla capacità umana di amare, che ancora resiste ed è più diffusa di quanto vogliamo vedere.

Detto questo, il mio preferito era il cinese Liu Wei con il suo Microword, esposto all’Arsenale: ci si sente piccolissimi e rapiti di fronte a questo insieme suggestivo di atomi, molecole, elementi microscopici diventati un paesaggio scultoreo in una scala di grandezza impensabile.

Un insieme la cui imponenza è sottolineata dalla luce fredda e da quella lastra di cristallo che chiude l’opera come in una gigantesca teca: uno spazio che non si può violare ma del cui contenuto si prende atto con stupore.

Queste sensazioni trovano immediato riscontro nella scheda che accompagna l’opera:

Il ritratto soggettivo e romanzato che Liu Wei fa della sfera microscopica risulta seducente e drammatico, e le sue dimensioni fanno rimpicciolire lo spettatore, ricordandoci che l’invisibile fa parte dell’ordine di un universo dalla portata sconfinata.

Il labirinto del padiglione Italia

Ho inserito il padiglione Italia nel numero ristrettissimo dei miei preferiti perché il curatore Milovan Farronato ha presentato un progetto assolutamente coerente con il tema dei “tempi interessanti”. Quello italiano è un padiglione da vedere.

Né altra né questa. La sfida al Labirinto è l’intrigante titolo, che richiama un saggio di Calvino, basata sulle opere di tre artisti: Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai che purtroppo, dal 2017, non è più tra noi per la più personale e la più irrevocabile delle scelte.

Calvino, nel saggio La sfida al Labirinto sosteneva che il compito della letteratura fosse la continua ricerca di un metodo, un modo di dialogare con il caos senza arrendersi, anche uscendo da un labirinto per ritrovarsi in un altro, ma senza illudersi che sia cancellabile il caos: occorre accettare il dubbio e l’indeterminatezza come parti fondanti della conoscenza stessa.

Parte da qui Farronato che “mette in scena l’impossibilità di ridurre l’esistenza a un insieme di traiettorie pulite e prevedibili, cercando piuttosto di evocare la non-linearità, il dubbio, la transitorietà e l’intuizione come strumenti ineludibili del sapere umano”.

E Venezia, un luogo in cui le carte geografiche sono sempre da rifare dato che i limiti tra acqua e terra cambiano continuamente, è la metafora stessa del labirinto: perfetta coerenza quindi del progetto del curatore non solo con i tempi intriganti ma anche con il luogo magico e sospeso che lo ospita.

E allora non aspettiamoci un percorso guidato, saremo costretti a fare delle scelte in continuazione: dovremo costruire il nostro percorso, tornare indietro più volte ma ogni volta scoprendo cose nuove, angoli non visitati prima, prospettive inedite.

Saremo in qualche maniera costretti a visitare anche il nostro labirinto interiore tra dubbi, incertezze e il piacere della scoperta: scoperta certo dei tre artisti ma anche dell’esploratore, timoroso o coraggioso, che è in ciascuno di noi.

Sui tre artisti non anticipo nulla, ma credetemi: quello che conta più di tutto è il percorso, anzi gli infiniti percorsi possibili tra fisicità e immaginazione.

E lo straniamento labirintico è favorito da un gioco di specchi: quando credi di star fotografando un’installazione, ti ritrovi a ritrarre in una ovattata luce violacea soltanto il tuo gesto e l’intenzione.

Al padiglione Venezia torna… Venezia!

Banale? Per niente. Nel senso che il padiglione è un chiaro atto d’amore per Venezia e non un luogo dove allestire, come in passato, le mostre più varie e incoerenti. Un atto d’amore che inizia dagli elementi caratteristici della laguna: acqua, pietra, legno, fune, tessuto. Per un’esperienza davvero immersiva.

Il gruppo Plastique Fantastique, diretto dal fondatore Marco Canevacci (cofondatrice la sudcoreana Yena Young), ha creato una struttura gonfiabile in plastica riciclata: un tunnel che percorre in lunghezza l’intera galleria del padiglione completamento allagato.

L’effetto è uno luogo vagamente nebbioso, straniante, irreale che il visitatore attraversa con cautela e sorpresa camminando su un cuscinetto d’acqua con passi morbidi e instabili.

Eppure ci si sente rassicurati come se quella laguna sotto i piedi e quell’atmosfera ovattata intorno fossero la coltura primordiale nella quale siamo stati nel tempo di prima.

La struttura è fiancheggiata da tredici “bricole” quei pali che, spesso a gruppi di tre, delimitano in laguna le zone navigabili. Ma queste sono di marmo, scolpite dallo scultore Fabio Viale, visibili dall’esterno e sorprendentemente percepibili dall’interno con le mani.

Il tatto entra in gioco insieme alla vista, all’udito, all’olfatto già stimolati dall’insolita atmosfera per un coinvolgimento intenso e prolungato, con evocazioni ancestrali.

Quei refoli di salmastro che si respirano a tratti non sono un’allucinazione olfattiva, ma l’opera da inalare di Lorenzo Dante Ferro, maestro profumiere, così come il sottofondo di sciabordii lagunari, appena percepibili o a tratti più intensi, sono del musicista greco Giorgos Koumentakis.

Da questo tunnel si esce con rimpianto. Ma ci si può sempre rimettere in fila e ricominciare.

A ciascuno la sua Biennale

Ovviamente questa non è la Biennale d’Arte 2019, ma scene, emozioni, suggestioni tratte dalla “mia” Biennale; inevitabilmente.

Vi lascio alla scoperta della vostra con un ultimo scatto: un particolare della straordinaria retrospettiva di Kounellis. Mostra che, da sola, varrebbe il viaggio a Venezia.

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