Un mese fa, all’età di 75 anni, ci lasciava Robert “Bobby” Hutcherson.
Il termine colorista si può applicare a una gamma professionale ampia e trasversale. In pittura viene definito così l’artista che fa del colore l’elemento principale della sua estetica, nel disegno grafico è chi si occupa dello sviluppo del progetto cromatico, mentre nel fumetto il colorista è colui che applica il colore a un disegno in bianco e nero.
Nella musica, invece, il colorista è un artista il cui stile e la cui interpretazione dello strumento sono particolarmente vivaci ed espressivi.
Nel suono del vibrafono (come in tutti gli strumenti considerati minori perché poco conosciuti o diffusi) il contrasto dei colori personali, rispetto agli altri strumenti, è decisamente più acceso. Per questo motivo, le caratteristiche distintive di un grande interprete, capace di conferire alla musica personalità e originalità, emergono in maniera quasi naturale.
Bobby Hutcherson è stato quello che si potrebbe definire un colorista del vibrafono. Un musicista sublime, capace non solo di donare a questo strumento una propria, piena dignità e identità, ma anche di mantenerlo vivo e moderno nel tempo, senza però snaturare la lezione del maestro, Lionel Hampton, il primo a introdurre il vibrafono nel jazz come strumento solista.
Se Hutcherson fosse stato un sassofonista o un pianista, oggi sarebbe ricordato tra i grandi del jazz moderno, ma il pregiudizio di certa critica nei confronti del vibrafono (quale strumento gregario nell’ambito dell’orchestra jazz tradizionale) lo ha costretto tra le seconde linee per molto tempo.
Bobby Hutcherson non è stato un vibrafonista qualunque: è stato un gigante, capace di scolpire alcune tra le pietre miliari della storia del jazz. A metà degli anni sessanta, dischi quali Dialogue (1965), Components (1966) e Stick Up! (1966), coraggiosi e carichi di un’energia profonda, hanno aperto la strada all’ascesa dell’avanguardia free.
Nato in California, da giovane studia il pianoforte ma viene presto folgorato dall’ascolto di Milt Jackson, la sua guida creativa insieme ad Hampton. Decide così che il vibrafono sarà il suo strumento.
Nel 1960, durante un concerto al celebre jazz club Birdland, viene notato da Duke Pearson. Duke era un giovane pianista di Atlanta che Alfred Lion aveva scelto come direttore creativo della Blue Note Records, per guidare l’etichetta nella nuova direzione intrapresa dal jazz moderno e decodificare l’inarrestabile ascesa dell’avanguardia in anni in cui le lotte razziali e il richiamo del potere nero erano più che mai presenti anche nel jazz.
Grazie al suo talento, Hutcherson non fatica a entrare nel giro dei musicisti che contano e inizia a suonare nei locali più prestigiosi e cool di New York. Collabora con talenti del calibro dei pianisti Andrew Hill, Herbie Hancock e McCoy Tyner, del trombettista Freddie Hubbard, del sassofonista Joe Henderson… Solo per citarne alcuni.
La sua dichiarata idea di musica, come esperienza di completa libertà espressiva, gli ha consentito di non tradire mai la propria fama di innovatore e sperimentatore. Lo dimostrano le eclettiche produzioni degli anni settanta nelle quali, pur non riuscendo a ripetersi con la brillantezza degli esordi, sperimenta le trame orchestrali unite all’elettronica, senza tralasciare una spiccata attitudine per le atmosfere funky fusion di ispirazione latin ed exotica.
L’esempio più riuscito di questa contaminazione lo ritroviamo in Montara. Album del 1975, disco che ha fatto da ponte tra presente e futuro, fonte di ispirazione anche per la nuova generazione di dj e produttori di musica elettronica. Ha ispirato anche Madlib per il suo album dedicato alla riscoperta del catalogo Blue Note, Shades of Blue del 2003.
Tra i meriti da riconoscere a Bobby Hutcherson va annoverato quello di aver affrontato da vero leader dello strumento una svolta epocale della storia del jazz, la più radicale e innovativa: la cosiddetta new thing.
Eclettico e allo stesso tempo visionario, è riuscito a cavalcare l’avvento dell’avanguardia, ha contribuito all’evoluzione del suono del vibrafono grazie alla capacità di aprire e contaminare il proprio stile, vigoroso e positivo, con le influenze del jazz modale e del free, senza mai abbandonare l’innata propensione ritmica e una continua e incessante ricerca armonica.
Semplicemente, Hutch poteva suonare tutto.
Cover: Bobby Hutcherson by Francis Wolff