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All You Need Is Lovemark

Possiamo definire il Brand Journalism il giornalismo di chi racconta storie, fatti e avvenimenti legati a un brand e al mondo che lo circonda.

Ognuno è un cantastoria. Tanti brand nella memoria. Parafrasare un noto ritornello della canzone italiana ci aiuta a capire quanto sia fondamentale per un marchio la capacità di lasciare il segno, di marchiare con un segno emozionale l’esperienza di un incontro.

Una bandierina piantata nel nostro cuore e nel nostro cervello, un lovemark come una conquista, un allunaggio come obiettivo raggiunto di un’esplorazione emotiva. Colonizzando bisogni latenti.

La percezione del consumatore, la colonizzazione delle sue abitudini e certezze in vista di un posizionamento di valore attraverso l’arte della narrazione. Arma strategica quella della fabula perché sempre di una lovemark story si tratta. Ma con una morale, questa volta, a lieto fine.

Una storia di amore e fedeltà non può non basarsi che su due principi fondamentali dei quali si nutre la fiducia della relazione: credibilità e trasparenza. Specie se proseguendo dal campo narrativo arriviamo all’informazione tout-court e queste storie riescano a trovare un nuovo canale e un nuovo stile di tipo giornalistico. Lo sa bene anche il fruitore-consumatore dei tempi pre-internet in cui si parlava di manipolazione dell’informazione come oggi in cui il “data” è tratto, si parla di fake news o perniciose influenze di consenso. La dimensione etica risulta quindi fondamentale per la creazione di una relazione duratura basata sulla fiducia. Del come anche un’idea, non più un ideologia, possa essere un brand, potrà anche farci riflettere, ma così è… Se vi piace.

Il Brand Journalism, è un giornalismo molto particolare. Si occupa della comunicazione di un marchio. Quindi il testo diviene necessaria narrazione della propria storia, quella dell’Azienda e del suo contesto. Questo particolare tipo di giornalismo è in grado di portare “valore reale percepito dal consumatore per sempre”. Un’intuizione o meglio illuminazione di Larry Light che nel 2004 in casa McDonald, ben consapevole di come le prepotenze pubblicitarie stessero perdendo colpi in termini di persuasione (più o meno occulta), indica una nuova via promozionale e strategica nel brand journalism. Un nuovo modello di comunicazione utile a scalare i vari gradini di quella piramide con cui l’economista americano David A. Aacker nel 2001, aveva rappresentato graficamente il suo modello teorico di brand awareness. La memoria aiuta ad evocare un marchio.

Di brand journalism e di brand magazine in Italia si è iniziato a parlare solo da qualche anno. Questo grazie anche ad esempi corporate come quello rappresentato da Centodieci, il brand magazine dedicato al valore della cultura dalla Mediolanum Corporate Univeristy o younipa, il blog dell’Università degli studi di Palermo, inaugurato nel 2012.
La storia dei contenuti e l’aura del racconto partono da lontano. Dalla Guida Michelin che nel 1900 fu ideata per gli automobilisti innamorati della propria automobile e curiosi su come utilizzarla al meglio. L’omino di gomma suggeriva percorsi di gusto e mete turistiche per viaggiare e far fruttare il proprio investimento.

Nel 1895 era stata la volta di The Furrow, magazine dell’azienda di macchine agricole di John Deere che nel 1912 poteva vantare ben 4 milioni di lettori, a tutti gli effetti un esempio di corporate storytelling ante litteram. Un classico citato anche dagli esperti di Content Marketing.

In Italia (sempre nel 1895) è una ditta olearia, quella della famiglia Sasso e figli, a creare un periodico decisamente in anticipo in merito a tecniche di promozione e comunicazione dal titolo La Riviera Ligure di Ponente.

La stampa aziendale d’altronde è sempre esistita come strumento della comunicazione societaria interna. Pubblicazioni pensate per rendere più aperta e diretta la comunicazione dei dirigenti con la propria squadra e i propri dipendenti. Esperienze editoriali meglio conosciute col nome di house organ che negli anni hanno avuto modo di arruolare numerose firme del giornalismo.

Oggi, ad esempio, notevole cura editoriale (veste grafica inclusa) e attenzione al valore dei propri contenuti è rappresentata dal mensile della Coop (su carta e digitale), CON – consumatori e responsabilità, che nella radice del suo titolo indica la formazione di un consumatore consapevole, informato sul contesto. Il mondo che lo circonda, appunto.

Abbiamo voluto approfondire l’argomento con Roberto Zarriello, giornalista per il gruppo Espresso, blogger per l’Huffington Post su nuove tecnologie e comunicazione e coordinatore Italia dell’area Regioni di Tiscali.it. Roberto è titolare del corso di Comunicazione digitale social media presso l’Università Pegaso, docente del Master Dal Brand Journalism alle Digital PR – Quando il Giornalismo Sposa l’Impresa organizzato da DataMediaHub, Associazione Stampa Romana e AGI e titolare del corso Brand Journalism in Ninja Academy.

Nel 2016 ha pubblicato Brand Journalism – Storytelling e marketing: nuove opportunità per i professionisti dell’informazione (CDG – Centro di Documentazione giornalistica) un prezioso manuale che ha il merito di coniugare storia, teorie e pratiche di un nuovo e proficuo incontro tra comunicazione e promozione. Uno dei pregi di questo volume è quello di andare al di là dei meriti teorici specifici della materia. La creazione e gestione di un brand magazine, come la figura stessa del Brand Journalist non può non tener conto, al di là delle competenze giornalistiche, di competenze tecniche che Zarriello non manca di indicare e da approfondire come requisiti di sistema. Dalla creazione di un blog con WordPress, alla creazione di utili contenuti (editoriali e multimediali). Dalla gestione strategica dei social media alla conoscenza degli strumenti d’analisi a nostra disposizione, per valutare l’impatto e l’efficacia del proprio magazine: statistiche di WordPress e Google Analytics.

Nella prefazione, Daniele Chieffi, head digital communication dell’AGI pone alcune domande fondamentali:
«Il brand journalist è o no un giornalista? Deve o meno seguire le regole deontologiche prescritte per la professione? E ancora, il brand journalist è solo un addetto stampa sotto mentite spoglie o è un giornalista “venduto” a un’azienda?»

Di certo non è un addetto stampa né tanto meno un professionista asservito o venduto ad altrui logiche di profitto.

«Le aziende» – prosegue – «sono parti di comunità digitali dai cui membri devono essere accettate. Sono per la prima volta alla pari con i propri stakeholders, condividono lo stesso ambiente, gli stessi strumenti di comunicazione, in un ecosistema sociale digitale dove le persone interagiscono per risolvere le proprie esigenze di informazione o per nutrire i propri interessi e passioni. Un ecosistema dove ha successo solo ciò che serve, interessa, coinvolge, diverte e commuove le persone, il resto viene ignorato».

Il Brand Journalism in Italia

«Per fortuna il mondo si evolve, quindi anche il giornalismo si adegua ai tempi. Un’economia sempre più globale e la nascita e lo sviluppo del web e dei Social hanno fatto crescere tra imprese e professionisti l’esigenza di gestire e governare spazi di confronto con il loro “pubblico” in maniera sempre più diretta. Le stesse aziende hanno sentito la necessità di informare la propria utenza, non solo su beni e servizi prodotti, ma anche sulla storia del marchio e su altre news di settore. Non più comunicazione pubblicitaria, dunque, ma informazione mirata realizzata da giornalisti iscritti all’albo professionale. Nel Brand Journalism, l’editore coincide con l’azienda. Attenzione, però, il Brand Journalist non offre la propria professionalità per promuovere un bene o un servizio del marchio (anche perché non è mai coinvolto direttamente nelle vendite) ma per raccontare l’azienda e il mondo che la circonda, fornendo un servizio di pubblico interesse. Bisogna precisare che il Brand Journalism non è una ‘creazione’ moderna, ma la sua origine risale al 1895, quando un’azienda di macchine agricole pubblicò il numero uno di The Furrow, una sorta di Rolling Stones per gli agricoltori; e, ancora oggi, può contare su 2 milioni di lettori in tutto il mondo. Oggi, però, siamo pronti per l’epoca d’oro del Brand Journalism».

Old vs New

«Se per giornalismo intendiamo il racconto dei fatti e della vita di tutti i giorni, è automatico che l’evoluzione della nostra professione sia direttamente collegata ai mutamenti della società. Al primo posto ci sono le nuove tecnologie. Un giornalista, oggi, oltre a saper scrivere in maniera efficace, deve essere in grado di lavorare agevolmente sui Social e padroneggiare perfettamente i linguaggi della multimedialità. Faccio un esempio: fino a qualche anno fa nelle tv i servizi erano incisi dai giornalisti, ripresi da cameraman e montati da tecnici. Il giornalista oggi deve essere in grado di confezionare il servizio da solo. Ed ora è possibile farlo anche con il solo smartphone o tablet grazie ad applicazioni mirate».

Il Brand come comunicazione e rappresentazione

«Ha una sua nicchia che diventa ogni giorno sempre più interessante. Le aziende aumentano gli investimenti in comunicazione e informazione perché hanno capito che in questo modo possono raggiungere più facilmente il loro target, fidelizzarlo e informarlo sulla storia, i principi e i valori del marchio. Alla lunga tutto questo fa la differenza tra un’impresa stabile e di successo e un’azienda a rischio concorrenza».

Il Brand Journalist

«Oggi un giornalista è un professionista che racconta la realtà di tutti i giorni seguendo le regole e l’etica della professione (che fa dunque informazione seria), utilizzando anche regole e strumenti della comunicazione digitale. Un brand journalist è un professionista che lavora in maniera strutturata in uno dei settori del giornalismo. Il giornalista che scrive per un Brand è un giornalista come tutti gli altri. È tenuto a rispettare le regole e la deontologia della professione. Il lavoro del brand journalist non è quello di fare pubblicità all’impresa. Le abilità sono quelle classiche del settore oltre a competenze nella comunicazione (compresa quella digitale), nel marketing e nelle nuove tecnologie».

Ad esempio…

«Uno l’abbiamo già citato ed è quello del magazine agricolo “The Furrow”, da cui tutto è partito. Venendo ai giorni nostri, invece, possiamo citare “Centodieci”: il magazine di Banca Mediolanum, oppure il sito della Coca-Cola che ha infatti deciso di cancellare quasi tutti i riferimenti pubblicitari all’interno, offrendo al visitatore una vera e propria rivista online, in cui poter leggere ogni sorta di notizia. È l’informazione che annulla il marchio, dandogli però una visibilità maggiore. Altro esempio è Sorgenia che ha scelto di accostare il proprio brand ad un magazine online intitolato “Energie Sensibili” con l’obiettivo di avvicinare il lettore all’energia rinnovabile e ai vantaggi per l’ambiente».

Opportunità

«Il presente e il futuro viaggiano sempre di più verso la “contaminazione” tra giornalismo e comunicazione. Bisogna fare attenzione, però, a un concetto fondamentale. Il giornalismo è informazione e chi fa informazione è tenuto a rispettare rigorosamente le regole deontologiche della professione. E questo vale anche per il settore del Brand Journalism. Se dovessi dare un consiglio ad un giovane aspirante giornalista, gli direi di imparare a diventare un ottimo storyteller e a padroneggiare tutte tecniche di montaggio audio-video. I video e le storie, infatti, sono il futuro del giornalismo».

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