“Uma camera na mao e uma ideia na cabeça”. Il cinema in Brasile nei primi anni Cinquanta guarda all’Europa, a Rossellini e De Sica, a Truffaut e Godard. È un cinema povero e coraggioso. Un cinema nuovo, fatto di mani che filmano, occhi attenti, fatto di teste con un’idea precisa: raccontare un paese enorme, multiforme, contraddittorio, difficile ma vivissimo. Raccontare il Brasile seguendone le sue ombre, dalle favelas delle grandi città fino al sertão, lasciando che la vita, con le sue contingenze, scorra dove vuole e può. Il cinema brasiliano è, in quegli anni, il Brasile stesso.
Nelson Pereira dos Santos e Glauber Rocha guidano e ispirano il Cinema Nôvo con pellicole come Rio, 40 graus (1955), Rio, zona Norte (1957) e Barravento (1962), rivelando l’urgenza di testimoniare al mondo l’esistenza di un’identità e di una cultura nazionale troppo spesso ingabbiate da letture ideologiche viziate e da una classe dirigente incapace. Tra quegli “stracci e cessi”, come avrebbe apostrofato il professor Caprigno di C’eravamo tanto amati, nasce l’estetica della fame e della violenza. Si mostrano con uno stile asciutto, quasi documentaristico, la miseria e la solitudine, le vessazioni dei padroni sui lavoratori, le cicatrici di un intero continente, prima stuprato e poi lasciato morire. E, tuttavia, resta la gioia dei ragazzini che vendono arachidi sulla spiaggia di Copacabana, le partite di calcio improvvisate, la samba ballata per le strade, gli innamorati in attesa di un figlio. Resta la vita, il bello, la grazia, la poesia nonostante la morte.
Dopo quasi quarant’anni e grazie a leggi a sostegno dell’audiovisivo lo spirito dei padri rivive in una nuova generazione di cineasti come Walter Salles, Fernando Meirelles, José Padilha. La Retomada, la rinascita, segna il ritorno, nella prima metà degli anni Novanta, ad un impegno etico, sociale e politico che vede nel cinema uno strumento di ricerca e, insieme, di diffusione e nei registi dei sociologi, degli antropologi e degli eccezionali umanisti.
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Nel decennio che vede crescere gli spettatori fino a 22 milioni, lo stesso in cui il presidente Lula favorisce con un decreto governativo le produzioni nazionali e in cui esordiscono, tra il 1994 e il 2004, più di settanta nuovi registi, il Brasile si presenta al mondo, non solo quello più povero, conquistando i festival e i premi più prestigiosi, da Berlino a Cannes, da Venezia a Los Angeles, sfilano sul red carpet i registi e gli attori “terzomondisti”.
Le pellicole sono geografie umane complesse, percorsi intimi e catarsi collettive in cui la violenza estrema è tollerata, accettata come ineluttabile, in cui si fotografa con estrema freddezza, eppure con una totale adesione emotiva, la sopravvivenza in mezzo a cumuli di macerie, dove a stento si sopravvive a se stessi.
Lo stile della narrazione è asciutto, la fotografia sporca, i debiti alle avanguardie europee tanti. Raccontare la precarietà con la precarietà, anche se oggi è Rete Globo, la più grande rete televisiva brasiliana, a produrre la maggior parte dei prodotti cinematografici nazionali e a preparare con lunghe gavette i registi più illustri.
Walter Salles è senza dubbio il regista carioca più conosciuto e apprezzato anche all’estero, grazie a I diari della motocicletta e alla produzione americana Dark Water. Nel 1998 Salles gira Central do Brasil, un viaggio umano, simbolico, non solo fisico, di una cinica e disillusa insegnante in pensione, Dora, e di un bambino, Josuè, scampato ai trafficanti d’organi. Insieme, attraversano il Paese spingendosi nell’arido nordest per cercare se stessi e la propria famiglia, un futuro che sembra illusione e un passato che traccia la mappa della loro esistenza. Salles ne fa un racconto biblico, il mito della Terra Promessa, il deserto, la piccola falegnameria, senza però dimenticare la sua inclinazione documentarista. Il film vinse l’Orso d’oro e il Golden Globe come miglior film straniero nel 1999, lo stesso anno dell’Oscar a La vita è bella di Roberto Benigni.
4 anni dopo Fernando Meirelles firma City of God, tra neorealismo e gangsterismo alla Scorsese, 20 anni dentro una favela senza dio, tra le più degradate di Rio de Janeiro, il sogno di diventare qualcun altro, un fotografo, un boss del narcotraffico. Buscapé e Dadinho, appena tredicenni, vivono l’inferno in terra, ancora più terribile per chi non ha la fortuna di essere morto. Le creature feroci, rigurgito della disperazione, sono piccoli mostri che non giocano alla guerra, la fanno. Nell’ultima scena Meirelles ci consegna il pesante fardello di adulti mai stati bambini, nella lista nera dove si decidono gli omicidi, le torture, le violenze da infligger, alla voce uccidi, abbiamo sparato tutti.
José Padilha, dopo il documentario Onibus 174, dirige nel 2007 il suo primo lungometraggio Tropa de elite – Gli squadroni della morte, Orso d’Oro a Berlino nel 2008. Il BOPE, la sezione speciale della polizia militare dello stato di Rio de Janeiro, ha uomini addestrati ad entrare nelle zone più a rischio, quasi sempre controllate dai trafficanti di droga. Tra quegli uomini considerati da molti degli eroi si celano frange incontrollate, le cui azioni di repressione e tortura riempiono le pagine dei report di Amnesty International. La pellicola di Padilha è una critica feroce al cancro terribile della droga, al bisogno di stordimento, alla schiavitù e alla malattia sociale che essa genera. In quel vuoto germina la violenza, quella dei narcos e quella ancora più temibile della polizia.
Sono film feroci, feroce è ciò che raccontano e feroce è il modo in cui guardano allo spettatore. Imperfetti come la realtà che hanno scelto di mostrare, sono film onesti, di un’onestà rara, vitali, di una vitalità impossibile da contenere. Sono soprattutto film universali, benché unici, esattamente come le pellicole neorealiste o delle Nouvelle Vague francese.
Quando andai in Brasile alcuni anni fa, sul muro di una scuola nel piccolo villaggio di pescatori di Canoa Quebrada lessi la scritta “Brazil, um pais de todos”, il “Brasile è un paese di tutti”. Lo slogan, ideato dal creativo Duda Mendoça per il governo federale di Lula, esprimeva la promessa di salvaguardare la diversità di culture, costumi, tradizioni e, nello stesso tempo, l’impegno per un’inclusione sociale di tutte le minoranze. Non lo sapeva Mendoça che il cinema, già molti decenni prima, di quell’onere aveva fatto il suo manifesto e la sua missione, da quando un regista prese una macchina da presa in mano e la sporcò con il fango di una favela.
Chiara Ribaldo | Bake Agency