Bill Milkowski è uno stimato veterano del giornalismo musicale, attualmente in collaborazione con il Down Beat, il Jazziz e l’Absolute Sound magazine. Alcuni dei suoi articoli sono apparsi su Jazz Times, Guitar Player, Bass Player, Modern Drummer e DRUM! Ha inoltre rilasciato interviste per diverse testate estere quali il Jazzthing (Germania), il VIbrations (Svizzera), il Guitar Club (Italia), il Guitar (Giappone) e l’Hudba (Slovacchia).
Cosa ti ha spinto ad intraprendere questo percorso? La scrittura, la musica, il bisogno di un lavoro?
Il mio interesse per la scrittura si è sviluppato parallelamente a quello per la musica. Ho preso in mano la mia prima chitarra a 12 anni. Alle medie strimpellavo con il mio vicino Rick Weinman, anche lui suonava la chitarra e cantava. Eravamo appassionati di stone blues, ricalcavamo artisti e note del calibro di B.B., Albert, Freddie (The Three Kings) studiando, allo stesso tempo, Johnny Winter, James Brown e i suoni psichedelici di Jimi Hendrix.
In quello stesso periodo cominciai a scrivere nella sezione sportiva del giornalino scolastico, The Samuel Morse Gazette. Al college le cose non cambiarono molto, continuai a suonare la chitarra alle jam session di blues e rock esibendomi per diversi concerti occasionali.
Quando iniziai a studiare giornalismo era il 1972 e l’anno successivo, nel 1973, recensivo concerti e dischi per il giornale del campus, the UWM Post. In quegli anni mi avvicinai molto di più al jazz, attraverso chitarristi come Joe Pass, Herb Ellis e Barney Kessel e fusion group come i Weather Report e i Return To Forever. Il primo pezzo per cui mi pagarono lo scrissi per l’alternativo settimanale The Bungle American, nel 1975. Nel 1976 ottenni un tirocinio estivo con il quotidiano locale, The Milwaukee Journal, senza mai tralasciare di affinare le mie abilità hendrixiane nelle sessioni improvvisate fra amici.
Allo stesso tempo, provavo regolarmente jazz improvvisato con un flautista, membro del Divine Light Missions accompagnati da un musicista d’ambiente, nella cui attività personale underground produceva pipe per hashish. Mi dilettavo quindi in una vasta gamma di generi musicali, statisticamente parlando.
Nell’agosto del 1976 recensivo concerti per il Milwaukee Journal (ogni cosa dai Kiss a Barney Kessel a Dolly Parton) e anche dopo aver terminato quel tirocinio estivo, continuai da freelancer. Dopo la laurea all’UWM nel 1977, fondai con due soci un bisettimanale Cityside. Io ero il redattore e in quanto tale mi occupavo principalmente di jazz, così diedi inizio ad un Blindfold Test, letteralmente test ad occhi chiusi) che i musicisti locali chiamavano Crosstalk, io mettevo su i dischi per i due musicisti e loro commentavano ciò che ascoltavano.
Cityside ha pubblicato per tre anni, finché non mi sono trasferito a New York, nel settembre del 1980, come managing editor al Good Times, un settimanale con sede a Long Island. Quel lavoro terminò dopo due anni, momento in cui decisi di mettermi in proprio scrivendo come freelance per una miriade di riviste, tra cui il Down Beat, Guitar World, Modern Drummer e una grande quantità di pubblicazioni musicali in Giappone, Germania e Italia.
Per tutto questo tempo continuai a suonare in situazioni occasionali, molte strimpellate e qualche concerto. Simultaneamente però qualcosa stava cambiando, le jam session a cui partecipavo diventavano sempre più avventurose e la musica che assorbivo dalla città (rinnegati come John Zorn, Eliott Sharp, Fred Frith) non faceva che espandere la mia visione musicale. Di conseguenza le sfumature musicali andavano aumentando. Dagli anni ’70 scrittura e musica si sono prese mano nella mano e hanno iniziato a camminare assieme, continuando tutt’oggi a farlo.
Quando è stata la tua prima intervista? E con chi?
La mia prima intervista retribuita è stata nel 1975 con Stanley Clarke, il bassista dei Return To Forever. Nel 1976, in qualità di scrittore per il Milwaukee Journal, ho intervistato Keith Jarrett, Barney Kessel, Billy Eckstine, James Brown, Chet Atkins, Fred Rogers del “Mr. Rogers Neighborhood” (lo show per bambini su PBS) e dozzine di altri musicisti. Scrissi inoltre i miei primi articoli per il Downbeat nel 1976 – si trattava della biografia del chitarrista Daryl Stuermer, nativo di Milwaukee che quell’anno entrò a far parte della fusion band di Jean-Luc Ponty, e di un altro chitarrista Larry McGhee, che arrivò in città con la star dell’R&B Norman Connors.
Qual è la tua impressione sui cambiamenti avvenuti nel business della musica, dal momento in cui hai iniziato?
Tutto è cambiato radicalmente, sia nel business della musica che in quello del giornalismo. Quando ho iniziato come libero professionista nel 1982, si lavorava ancora con la macchina da scrivere e per fare le correzioni si usava il Typex. La consegna era però la parte più delicata: finito il lavoro, saltavo nella mia macchina , guidavo dal Queens fino all’ufficio della Fed Ex sulla 42esima Strada a Manhattan affinché l’articolo arrivasse il giorno dopo al Downbeat o a chi per loro. Ricordo che un inverno percorrendo questa strada sbandai sull’asfalto ghiacciato con la macchina. Per rispettare una scadenza sarei potuto morire! Oggi, invece, tutto ciò che bisogna fare è premere il tasto INVIO sul computer e il lavoro arriva istantaneamente all’ufficio del Downbeat di Chicago.
In quanto giornalista musicale, ho visto il cambiamento dell’industria in termini del prodotto stesso – dalle cassette e i vinile degli anni 70 all’avvento dei CD a metà anni 80 e la Digital Audio Tape (DAT) degli anni 90 fino agli albori degli MP3. È pur sempre un business e in quanto tale è suscettibile alle mode e ai cambiamenti di gusti del pubblico. Parlando invece di jazz, genere che ho trattato quasi esclusivamente negli ultimi 40 anni, le case discografiche al giorno d’oggi continuano con le loro scelte, restando coerenti relativamente a cosa decidono di firmare. Negli anni 80, la Columbia Records, un’etichetta di noto spicco, firmò con musicisti considerati ribelli come Tim Berne, James Blood Ulmer e Arthur Blythe, nessuno di loro avrebbe mai ottenuto un contratto del genere oggi.
Devo dire che il trend maggiore che io abbia mai visto per quanto riguarda i musicisti è il tentativo di spingersi verso la scena della produzione indipendente, dove molti artisti prendono le redini della produzione e distribuzione del proprio prodotto (e quindi, guadagnando più profitto anche vendendo meno copie del previsto).
Da quando hai cominciato, come è cambiata l’industria editoriale, in particolare nella relazione con i digital media? Consideri questi cambiamenti vantaggiosi o sfavorevoli?
Essere un giornalista musicale negli anni 70 e 80, ma anche nei 90, era come far parte di una fratellanza esclusiva (e uso questo termine perché non c’erano tante donne scrittrici allora, al contrario di oggi).
Oggi con l’avvento dei blog, podcast, Facebook, Twitter e tutte le altre piattaforme di pubblicazione che esistono solo online (e che generalmente non pagano i contribuenti), sembra che tutti abbiano la propria opinione e debbano necessariamente comunicarla anche se il loro pubblico è ristretto. Questo, secondo me, ha senza dubbio indebolito l’arte e sminuito il valore della qualità di scrivere.
Ricordo che negli anni 80 un gruppo di giornalisti del Downbeat provò a ottenere un pagamento immediato (insieme ad un aumento) e la reazione dell’editore fu memorabile, in sostanza gli disse: “Non ho bisogno di pagarvi. Posso andare alla Medill School of Journalism e prendere studenti che fanno lo stesso lavoro ma gratis, in cambio di crediti universitari”. Questo chiuse la negoziazione definitivamente!
Sono felice di poter dire che oggi il Downbeat tratta i suoi scrittori freelancer correttamente, e c’è un flusso apparentemente interminabile di nuova linfa tra le pagine della rivista. Ci sono poi anche altre pubblicazioni che offrendo il minimo sindacabile ottengono in cambio spazzatura stampata da scrittori sprovveduti che non sono in grado di rappresentare un chiaro argomento e mancano di gusto. Il risultato finale è un generale indebolimento della critica musicale.
Vi è, in ogni caso, una ristretta cerchia che continua a esprimersi brillantemente relativamente a una vasta gamma di argomenti specifici su blog personali; tutto ciò contribuisce ad rialzare il livello.
Cosa ne pensa dell’enfasi impiegata sulle definizioni di genere musicale? Utile o gratuita?
Fortunatamente, ritengo che il tutto sia scemato nei passati 10-15 anni, in gran parte perché gli artisti individuali esprimono se stessi in modo così genuino come mai prima. Molti artisti intrepidi hanno mostrato TUTTE le loro influenze restando comunque all’interno del loro sound originale – dal rap alla musica indiana (nel caso di Rudresh Mahanthappa e Rez Abbasi) dalla musica del mondo a quella classica o contemporanea così come al jazz. Un altro poi, fattore che ha determinato l’erosione della definizione di genere, a parer mio, è la scomparsa (almeno a NYC) dei negozi di dischi. All’epoca, i dischi erano catalogati in cesti per genere – jazz, blues, rock, indie rock, fusion, ecc. Niente negozi vuol dire niente cesti, dunque nessun bisogno di categorizzare il disco. Così i confini continuano a offuscarsi.
Pensi che il tuo gusto musicale eclettico abbia semplificato la rotta delle tue interviste? Ho notato che metti le persone a proprio agio (anche Keith Jarret!). Pensi che il tuo essere musicista trasmetta più fiducia alla persona che hai davanti?
La maggior parte delle persone che ho intervistato non mi ha mai sentito o visto suonare. Ho provato con pochi di loro (Mike Stern, John Scofield, Dave Stryker, Fred Hersch, Robert Quine) ma in generale non mi vedono come un musicista. Nonostante l’etichette, è chiaro a tutti sin da subito che conosco ciò di cui parlo. Svolgo meticolosamente i miei compiti a casa prima di intervistare qualcuno e spesso tiro fuori aneddoti dalle mie esperienze personali che si vanno poi a collegare con l’argomento trattato, come la partecipazione ad un evento o la comprensione di un tipo di musica. Per rendertela più concreta, la volta in cui ho intervistato il chitarrista Jimi Hazel, dei 24-7 Spyz, gli ho raccontato di un’intervista fatta un po’ di anni prima con uno dei suoi eroi – il chitarrista Eddie Hazel dei P-Funk.
Il tuo stile nelle interviste è molto personale e intimo. Si è trattato di un’evoluzione spontanea o premeditata. O hai intrinseca in te questa forma?
Provo sempre a legare le mie esperienze personali alle interviste così da renderle più una conversazione che un terzo grado. Spesso, se si tratta di una situazione informale in cui si ha abbastanza tempo, inserisco storie di mia figlia, che va a scuola in Vermont e suona il violino. Può capitare che il soggetto intervistato abbia un figlio della stessa età della mia Sophie (come John McLaughlin, per esempio) o che abbia avuto un’esperienza simile con un bambino (come Larry Coryell). Così la prima cosa che accade quando li incontro o li intervisto di nuovo, è di solito “Come sta Sophie?” Questo tipo di approccio confidenziale è sempre in grado di rompere il ghiaccio e di mettere il soggetto intervistato a suo agio, specialmente quando questo si rivede nelle mie storie personali.
C’è da dire che però non va proprio così per tutte le mie interviste. Ricordo quella volta, erano i primi anni 80, che stavo intervistando il chitarrista dei Pink Floyd David Gilmour negli studi del Columbia Records ed ero tipo il ventesimo tizio che gli si presentava di fronte quel giorno. Era esausto e tutt’altro che interessato alla mia intervista, lo capii subito nel momento in cui mi sono seduto. Nonostante ciò trovai il modo di svegliarlo sorprendendolo con una domanda specifica riguardo il vibrato e il testo di un particolare passaggio in una sua canzone (pubblicizzava un album da solista al tempo, avevo studiato intensamente, e riuscii a preparare una serie di domande sull’orientamento musicale da lui scelto, che mi avrebbero fatto spiccare rispetto agli altri, immagino).
La tua varietà nelle interviste mi sorprende! Da Keith Richards a Milford Graves, Stevie Ray Vaughn e John Zorn! Esiste un filo conduttore che collega tutto questo?
Solo la passione che ogni artista mette nel suo mestiere e la volontà di continuare a cercare. Come mi disse George Clinton una volta, “Il segreto sono gli sforzi, non il traguardo”.
Qual è l’intervista più strana che tu abbia mai fatto?
Forse quella a un Yngwie Malmsteem ubriaco, una mattina nella sua stanza di hotel a Manhattan. Era appena atterrato a New York da un concerto in Russia, quindi forse era un po’ stordito per il jetlag e per l’alcool. Ma poi, nel bel mezzo dell’intervista, si sfilò la cintura e alzandosi in piedi, prese a dire che i russi mangiano cibo per maiali!
O forse è stata l’intervista a Robert Fripp al Cupping Room in Soho, nel 1981, a metà intervista guardai in basso verso il registratore (!) solo per rendermi conto che il nastro non stava girando (!!!). Le batterie erano finite. Quando, nervosamente, glielo rivelai Fripp si alzò dalla sedia ed esclamò, “Bene, così è andata…” lasciando subito dopo il ristorante!
Riaffiora alla mente anche un burbero Joe Henderson, o un impaziente Keith Jarrett (che minacciò di abbassare la cornetta dopo soli due minuti dall’inizio dell’intervista) o un emotivo Tony Williams al bar che dopo qualche cognac di troppo piangeva per la scomparsa di Miles David, avvenuta poco tempo prima, e malediceva con rabbia lo scrittore Stanley Crouch per aver definito Miles una puttana in un articolo uscito sul New Republic magazine.
Forse è stata la mia intervista a B. B. King sull’autobus per Rikers Island, dove lui e la sua band hanno suonato per le donne in prigione.
La mia intervista a Jaco Pastorius presso il 55 Bar, in un pomeriggio del 1982, fu senza dubbio bizzarra e rivelatoria (tre anni dopo gli venne diagnosticato il bipolarismo durante la sua permanenza di sei settimane al Bellevue Psychiatric Ward).
Ricordo un’intervista curiosa col cantante Joe Lynn Turner (che poi divenne front man dei Deep Purple) svoltasi dopo il soundcheck. Mentre parlavamo, lui tirò fuori una pistola e con nonchalance iniziò a sparare ai ratti nel backstage di un vecchio teatro di Milwaukee!
Ricordo che una volta, durante un’intervista telefonica a Joe Pass parlando di un album che detestava in tutto e per tutto, impiantato solo su cover dei Rolling Stones, lui si mise ad imprecare contro l’etichetta, il producer e anche contro la musica, lasciandomi così senza neanche una parola che potessi pubblicare.
Un’altra volta, intorno al 1977, intervistai Pat Martino, l’incontro fu talmente esoterico che alla fine mi ritrovai con niente di concreto da poter pubblicare (ma con un sacco di parole casuali sulla psiche, le piramidi, le onde dell’oceano e robe simili).
Forse però l’intervista più strana è stata con Johnny “Guitar” Watson nel 1976. Andai al suo concerto al Milwaukee Auditorium, dopo lo raggiunsi nel backstage e gli proposi un’intervista per il Guitar Player mentre era in città. Lui rispose: “Certamente, vediamoci nella mia stanza”, lasciandomi il nome dell’hotel. Mi presentai ed ero piuttosto sicuro che avrei trovato una festa in corso. In realtà Johnny si presentò con due ragazze – una bianca, l’altra nera – poco prima che l’intervista iniziasse, le sue ultime parole furono: “Torno subito”. Aspettai per circa un’ora, poi alla fine me ne andai.
Un altro episodio bizzarro fu con Ray Charles nella sua stanza di hotel dopo il concerto al Lincoln Center. Si svolse intorno alla mezzanotte, era pensata come un’intervista doppia a Ray e al trombonista Steve Turre, che aveva suonato con Ray da giovane e con cui aveva duettato in quella particolare occasione. Un fotografo e il suo team erano stati inviati nella stessa camera di hotel per una foto di copertina con Ray per il Jazz Times magazine. Montarono uno sfondo e fecero svariate prove per le luci.
Il manager di Ray ci guardò e disse: “Ok, Ray arriverà qui, si siederà e avrete venti minuti a disposizione per tutto – intervista e foto”. Come volevasi dimostrare Ray entrò e il suo manager riempì fino all’orlo un grande boccale di cognac e glielo passò. Ruppi il ghiaccio con la mia conoscenza enciclopedica su Louis Jordan, un eroe per Ray. Questo lo fece ridere e gli fece ricordare i vecchi tempi, il resto fu semplice. Il fotografo scattava mentre noi parlavamo. Con tempismo perfetto, scaduti i 20 minuti, si alzò e se ne andò con due ragazze – una bianca e una nera – e due bottiglie di cognac.
In quanto esseri umani evolviamo mediante il contatto sociale sia intellettuale che spirituale. In questi termini di cosa si è arricchito il tuo lavoro, e in che modo questa interazione costruttiva con musicisti così diversi ti ha influenzato?
Mi ritengo fortunato per aver incontrato e scambiato idee con così tanti artisti mondiali, stimolanti e di larghe vedute che possiedono una saggezza profetica, una forte componente spirituale e una visione globale espansiva. Sono tutti stai miei insegnanti, non solo di musica ma soprattutto di vita.
Trovi che risulti difficile essere totalmente onesti in questo tipo di interviste? Intendo sia per il giornalista che per l’intervistato. L’intervista è un momento divertente con un formato di scrittura tanto innocente quanto rivelatore. Cosa ne pensi della forma in sé dell’intervista dopo tutto questo tempo?
È una valida forma di comunicazione. Ma ancora, trovo più accattivante conversare con qualcuno piuttosto che fargli il terzo grado. Mi piacciono le conversazioni spontanee, per questo motivo, in quarant’anni, non mi sono mai presentato ad un’intervista con una lista di domande.
Studio il background delle persone, ascolto la loro musica, intuisco alcune delle risposte in base a come la loro musica mi fa sentire e poi instauro con loro una conversazione onesta, sostanzialmente riprendendo ciò che loro stessi, consapevolmente e non, fanno trasparire.
Le interviste che non mi piacciono sono quelle nei quali il soggetto intervistato è palesemente preparato e dà risposte meccaniche e studiate, quasi come se le leggesse da un copione. Ho vissuto situazioni nelle quali ho pensato che le interviste fossero sincere, che fossi riuscito a carpire risposte genuine, solo per scoprire dopo che le stesse parole erano già apparse in altri articoli.
Questo accade spesso con le grandi pop star che vengono preparate per una valanga di interviste ogni singolo giorno, come se si trattasse di un lavoro in fabbrica. Io preferisco di gran lunga interviste nelle quali senti davvero di vivere il momento, nelle quali si vive uno scambio di idee proprio come se si stesse parlando ad un amico che non si vedeva da un pezzo.
Anche la tua produzione è a dir poco impressionante! Quanti dei tuoi libri sono in circolo al momento? Se non sbaglio il libro su Jaco è quello che ha riscosso più successo, sia in termini di copie vendite che di fama mondiale, dico bene?
Jaco (“JACO: The Extraordinary And Tragic Life of Jaco Pastorius”, Backbeat Books) come libro, è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. L’edizione è stata seguita da una versione più estesa in occasione del decimo anniversario nel 2005.
Ha venduto più di 70,000 copie in tutto il mondo al tempo (tradotto in italiano, spagnolo, slovacco, giapponese e francese).
A questo primo libro è seguito “Rockers, Jazzbos & Visionaries” del 1998, poi “Swing it! An annotation. History of Jive” del 2004, “Legends of Jazz” del 2011, “Here and Now: Tge Autobiography of Pat Martino” sempre del 2011 e “Keith Richards: A Rock ‘n Roll Life” del 2012. Questi libri si possono trovare tutti su Amazon.
In quanto musicista e come scrittore, percepisci la stessa soddisfazione sia in termini di crescita personale sia semplicemente per un lavoro ben fatto?
Sì, ho recentemente scritto un articolo di prima pagina per il Downbeat su Esperanza Spalding, bassista, cantante, compositrice, band leader e concettualista. Vedere la sua foto in copertina e la mia firma allegata alla storia mi ha regalato un senso di orgoglio. Similmente, ho provato lo stesso suonando con i miei ragazzi dei Dissipated Face alla Downtown Music Gallery. Lo stesso tipo di slancio che si ha dopo un concerto, un vero senso di realizzazione.
Per concludere, la concezione che gli artisti siano avanti rispetto ai tempi, è un mito o una realtà?
Non è solo realtà, ma esattamente la descrizione del loro lavoro!