L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Miriam Bendìa.
Il sociologo Domenico De Masi, interrogato sui temi caldi del lavoro, della cultura e dell’immigrazione, ci regala un piccolo prontuario per non arrendersi al degrado e innescare un cambiamento.
Com’è cambiato e come cambierà il tempo del lavoro?
La convergenza di progresso tecnologico, sviluppo organizzativo, globalizzazione, scolarizzazione e informatica comporterà la possibilità di produrre sempre più beni e più servizi con più lavoro meccanico e meno lavoro umano. Gli esiti possono essere due: o tutti lavoreranno un poco meno; o (come succede attualmente) alcuni sgobbano otto-dieci ore al giorno e altri restano completamente disoccupati.
Secondo lei, cosa serve al nostro Paese per consentirgli di fare il salto qualitativo (e quantitativo) che sogniamo da decenni nell’organizzazione del lavoro?
Politici, imprenditori, sindacalisti, manager intelligenti, capaci di ragionare con la propria testa. “Vasto programma” direbbe il generale De Gaulle.
In Italia, specialmente nella politica, si fa spesso fatica a condividere dati e cifre che raccontino la realtà. Da quale fattore dipende secondo lei questa mancanza di “laicità”?
Dalla resistenza conservatrice ai cambiamenti. I dati ci sono ma si fa di tutto per non vederli o per vedere solo quelli di parte.
Tre consigli che darebbe ad un giovane che si affaccia sul mercato del lavoro, in Italia.
– Rifuggire dalle raccomandazioni
– Partecipare alle lotte di chi si batte per un mercato del lavoro realistico e sano
– Non arrendersi.
Come ci fa notare nel suo Ozio Creativo, oggi che la maggior parte della fatica manuale è di routine ed eseguita dalle macchine, ci è richiesto sempre più di essere creativi e fantasiosi. L’Italia in questo è sempre stata maestra, almeno nel passato: che cosa si è spento nel popolo italiano? Perché, adesso, sembriamo non riuscire a tenere il passo con gli altri paesi occidentali?
La creatività è un fenomeno capriccioso. Non esiste un sesso, un’età, una città, un gruppo, un popolo che abbiano per sempre il dono della creatività. La Firenze rinascimentale aveva 19.000 abitanti e decine di geni. La Firenze attuale ha 360.000 abitanti e nessun genio. In questi anni la creatività tecnologica è soprattutto in Silicon Valley, la creatività enologica è soprattutto in Franciacorta, la creatività musicale è soprattutto in Brasile, ecc.
2 maggio 2014, il New York Times: “Se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi dovrebbe stare in carcere”. Per omessa dichiarazione dei redditi, solo l’erario italiano è stato truffato di ben 880 milioni di imposte Ires. Un caso clamoroso di evasione fiscale, una piaga che conosciamo bene nel nostro Paese. Secondo lei quale strategia dovrebbero adottare i politici italiani per tentare di risolvere la questione? Perché gli italiani non amano pagare le tasse?
L’Italia, grazie al giudice Francesco Greco, è stato il primo Paese a recuperare una parte delle tasse truffate da Steve Jobs. Gli italiani non pagano le tasse perché
le tasse sono troppo alte; perché non pagarle è segno di furbizia e perché la cultura cattolica è lassista.
Nella società postindustriale, i media e l’economia globalizzata provocano sempre di più l’omologazione dei modelli di vita e degli assetti politici. Quali strumenti abbiamo, dentro di noi, o dove possiamo trovarli, al di fuori, per difendere la nostra identità e non soccombere alla massificazione?
La massificazione era propria della società industriale, quando conveniva alle imprese produrre molti prodotti tutti uguali e quindi, tramite i fenomeni di moda, era conveniente manipolare un vasto pubblico di consumatori in modo che accettassero l’idea di apparire tutti uguali e ne fossero addirittura orgogliosi. Nel ’68 migliaia di studenti vestivano tutti lo stesso eskimo verde e milioni di cinesi vestivano tutti la stessa divisa.
Ora, nella società postindustriale, le macchine a controllo numerico sfornano prodotti uno diverso dall’altro, a parità di costo, e le aziende non hanno più nessuna convenienza a creare costosi fenomeni di moda. Perciò, se guardo un corteo, vedo tutte persone che vestono in modo diverso. Non si produce e non si consuma più in serie, ma in serie di piccole serie, come nel caso degli orologi Swatch. Ciò consente un recupero almeno parziale della soggettività.
Per difendere la propria identità occorre cultura e la cultura costa fatica.
Come l’Imperatore Adriano cercava, inconsolabile, il volto di Antinoo nelle migliaia di statue che gli dedicava, l’Italia insegue l’antica forza politica ed economica in una serie di esperimenti a dir poco fallimentare. Il nostro Paese è sull’orlo di un precipizio e ha bisogno di un cambiamento. Secondo lei, una maggiore apertura ai popoli migranti che approdano sulle nostre coste potrebbe, forse, aiutarci a costruire un ”mundo mejor” per noi e per loro?
Il nostro Paese non è sull’orlo di un precipizio. I Paesi al mondo sono 196 e noi siamo all’ottavo posto nella graduatoria del PIL complessivo (2.149 miliardi di dollari) e al 34° posto nella graduatoria del PIL pro-capite (35.686 dollari). Poiché il PIL pro-capite della Cina è di 6.810 dollari e quello dell’India è di 1.500 dollari, è molto difficile che il nostro PIL possa crescere in misura consistente. Tanto vale portare avanti una seria politica di decrescita degli sprechi.
Oggi il flusso immigratorio rappresenta l’unica occasione positiva per il nostro Paese: giovani disperati e perciò motivatissimi, spesso diplomati e laureati, per la cui formazione non abbiamo speso una lira e che arrivano da noi portando con sé il proprio know-how ricco di culture diverse dalla nostra. Lo scorso anno sono emigrati dall’Italia 6.500 laureati italiani e sono arrivati 94.000 laureati stranieri: una vera manna che noi sprechiamo chiudendoli nei campi di concentramento o sotto-utilizzandoli come lavapiatti.
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Domenico De Masi è’ Professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Ha fondato la S3-Studium, società di consulenza organizzativa, di cui è direttore scientifico. E’ membro del Comitato etico di Siena Biotech e del Comitato Scientifico della Fondazione Veronesi. E’ stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove ha insegnato Sociologia del lavoro; presidente dell’In/Arch, Istituto Italiano di Architettura; fondatore e presidente della SIT, Società italiana telelavoro; presidente dell’AIF, Associazione Italiana Formatori. Ha pubblicato numerosi saggi di sociologia urbana, dello sviluppo, del lavoro, dell’organizzazione, dei macro-sistemi. Dirige “NEXT. Strumenti per l’innovazione” ed è membro del Comitato scientifico della rivista “Sociologia del lavoro”. Collabora con le maggiori aziende e con le maggiori testate italiane.