Un “concerto teatrale” o con termine più difficile, melologo. È questa la formula con cui l’attore Roberto Herlitzka, qui anche in veste di regista, ha portato in scena l’opera più conosciuta e allo stesso tempo misteriosa di Tito Lucrezio Caro, il De Rerum Natura. Una coproduzione Romaeuropa Festival andata in scena al Teatro Vittoria di Roma (lo scorso 17 e 18 novembre), in occasione del 54° festival di Nuova Consonanza Trasposizioni illimitate.
Il poema lucreziano è del I secolo a.C. e ha, fin dalle premesse, il fine di divulgare la complessa materia scientifica attraverso la lente della poesia. A questo proposito si utilizza spesso la similitudine del bambino cui bisogna far prendere una medicina molto amara, e così gli si cosparge l’orlo del bicchiere di miele. Da questo “inganno” il bambino riceve la vita, nello stesso modo in cui il lettore (in questo caso l’ascoltatore), rapito, entra nel complesso intreccio tra scienza e poesia.
In molti ritengono che l’autore della traduzione sia lo stesso Herlitzka, e probabilmente è così. L’attore sostiene si tratti invece di un “ritrovamento”, di una traduzione trecentesca del testo di Lucrezio in una biblioteca. Si tratta di un sotterfugio? La titolarità della traduzione rimane avvolta nel mistero, e Herlitzka nella presentazione che precede lo spettacolo al Teatro Vittoria ci scherza anche su, dicendo che in fin dei conti “non cambia nulla”.
L’accostamento ricorrente è tra il poeta latino e Dante, non solo nella forma scelta per la traduzione (le terzine rimate), ma anche per il contenuto: Lucrezio e Dante sono entrambi “poeti del cosmo”. Sulla scia di Epicuro, e in netto contrasto con le teorie dominanti dell’epoca, Lucrezio richiama la responsabilità personale dell’essere umano perché prenda coscienza della realtà, e si distacchi delle passioni che fin dalla nascita gli uomini non riescono a comprendere.
Dal testo, che possiede una sua intrinseca musicalità, nasce così l’idea di far dialogare sul palco la parola con la musica, attraverso quattro composizioni eseguite dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese. Gli autori delle composizioni sono Matteo D’Amico, Lamberto Macchi, Enrico Marocchini (qui anche direttore dell’Orchestra) e Ivan Vandor.
A colpire lo spettatore è soprattutto l’incastro tra la intensa “lettura recitata” di Herlitzka e le musiche, eseguite tutte in prima assoluta. Se con il testo si indaga la natura e si cerca di comprendere l’essenza della materia, con la musica ci si immerge nel “sacro e nel tempo sconfinato.” Musica e parola si abbandonano per poi ritrovarsi, in un incontro mai fine a se stesso, e sempre emozionante.
All’intensa composizione di Vandor Nouvelles errances è affidata l’apertura del melologo, (Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas), con la lettura di Herlitzka dell’Inno a Venere di cui si celebra la potenza generatrice, principio fondamentale che governa la vita.
In questo primo passaggio, probabilmente, la musica chiede allo spettatore un livello di attenzione e di partecipazione emotiva che ne toglie un po’ al logos. Nel corso dello spettacolo, poi, il bilanciamento si affina, con le altre tre composizioni (in particolare con L’umano senso di Matteo D’Amico), si raggiunge un maggiore equilibrio tra le parti.
In sostanza, un allestimento che emoziona e coinvolge, con il poeta latino Roberto Herlitzka ha trovato “il cielo sotto cui muoversi”. Una voce che scandisce un testo poetico senza tempo, e che indaga laicamente il rapporto insoluto tra passione e razionalità.