È l’8 aprile 1990 quando sull’ABC va in onda la prima puntata di Twin Peaks, il telefilm, come si diceva allora, creato dalle folli menti di David Lynch e Mark Foster. “Chi ha ucciso Laura Palmer?” è la domanda che si fanno tutti, dal piccolo immaginario villaggio montano al confine con il Canada alle poltrone di mezzo mondo, una domanda che conduce lo spettatore tra i meandri bui e stravaganti della mente umana, tra nebbia e sacchi di cellophane.
La detective story sull’efferato quanto misterioso omicidio della bella adolescente figlia di papà fu il primo straordinario esempio di come la televisione poteva essere cinema per interni, originale, elegante, ottimamente scritto e recitato. Altro dalle atmosfere camp e melodrammatiche delle soap opera, dai colori pop delle sit com, molto prima che il politically uncorrect diventasse il negativo con cui fotografare il mondo. Così, mentre i blockbuster attiravano i cinefili del weekend, i ragazzini in tumulto ormonale, gli appassionati di effetti speciali e i produttori di pop corn, il piccolo schermo affinava gli artigli e le ambizioni, riscoprendo modalità inedite di racconto. Siamo di fronte, per dirla con le parole di Alberto Abruzzese, ad un “cinema riformato e insieme rifondato per i flussi pubblicitari”.
Nella prima metà degli anni Cinquanta l’America del baby boom aveva dimenticato la censura e il codice Hays demandando al medium appena nato la funzione di guida morale e nunzio apostolico; il cinema, invece, riscopriva l’inferno, gli uomini e le donne perdute, i vizi di un’intera nazione e una sessualità totalmente libera dal peccato e profondamente consapevole. Hollywood rinasceva mostrando la realtà più cruda. Il cinema americano si apriva ai maestri europei, ai grandi romanzieri, la tv, invece, parlava alle casalinghe disperate, consigliandolo loro come cucinare, come vestirsi, come essere mogli e madri amorevoli.
Negli anni, tra questi due media, ci sono state lotte feroci e armistizi più o meno solidi, compromessi tra la qualità del contenuto e la forza persuasiva del contenitore, furti di idee e talenti, acquisizioni multimilionarie e scatole cinesi, fino ad uno scambio simbiotico che rende vacuo e provvisorio ogni tentativo di etichettatura. Se non è cinema e non è televisione, allora che cos’è? Perché la nuova serialità televisiva attinge a piene mani dalla settima arte, dai suoi linguaggi e forme, seduce divi e premi Oscar, da Al Pacino a Glenn Close, da Kevin Spacey a Robin Wright, da Jessica Lange a Kevin Bacon. In America per un attore la tv non è un luogo in cui espiare i propri fallimenti, è, al contrario, un Eldorado di visibilità. Più piccolo è lo schermo più autorevole è il riconoscimento. È la tv, una certa tv si intende, ad attrarre un pubblico sempre più di nicchia, una comunità di appassionati, perlopiù laureati, che consuma storie, via cavo o in streaming, anticipando in molti casi i canali tradizionali (come dimostra il caso di House of Cards).
In questo scenario, dominato dal canale via cavo HBO (che ha lanciato serie come The Wire, I Soprano, Angels in America, Game of Thrones e Boardwalk Empire) e dagli orfani di Breaking Bad, emerge la serie antologica True detective (prevista in Italia per settembre sul canale Atlantic di Sky) firmata dal romanziere, alla sua prima sceneggiatura, Nic Pizzolatto e diretta da Cary Fukunaga, uno dei figli più promettenti del Sundance. Protagonisti e produttori esecutivi Matthew McConaughey e Woody Harrelson, entrambi in stato di grazia, nei panni dei detective Rust Cohle e Martin Hart.
8 episodi lungo le strade polverose, i boschi e le paludi della Louisiana, dentro un’America sudicia e decadente popolata da zombi e fantasmi, rigurgiti di un’etica malata e schizofrenica che i pellegrini portarono con se, un po’ stupratori, un po’ salvatori.
Proprio come in Twin Peaks, gli omicidi ci portano altrove, innanzitutto nelle vite dei due poliziotti, l’apparentemente normalità familiare di Hart tra tradimenti e figlie adolescenti, la follia lucida di Cohle – perché se Nietzsche fosse nato a Baton Rouge avrebbe tracannato pessima birra e fumato centinaia di Camel – il peso di essere un borghese piccolo piccolo e la consapevolezza dei propri limiti, l’incoscienza di sé e l’insostenibile pesantezza dell’essere.
Ma Pizzolatto ci trascina ancora più affondo in atmosfere tipiche del Southern Gothic – questo è evidente fin dai titoli di testa, firmati musicalmente da The Handsome Family, che da soli varrebbero un Golden Globe – dove la Bibbia si mischia ai riti Voodoo, la fede alla superstizione, il puritanesimo al peccato, la vergogna all’abiezione morale. Ci sono crocifissi, svastiche, demoni, ladri di bambini, puttane, maniaci e predicatori. Sembra l’inferno, ma è peggio, perché non si scorge mai, se non alla fine e per un breve momento, un frammento di paradiso o, a volerci accontentare, di purgatorio.
True detective è, come ha scritto nuovamente Alberto Abruzzese, la negazione dell’umanesimo, il suo totale fallimento. Seppure si combatte il male, quasi più per un dovere sociale che per una sorta di moto interiore, è impossibile sconfiggerlo, “dovremmo smettere di riprodurci, procedendo tutti insieme verso l’estinzione”, dice Rust a Marty in uno dei dialoghi più efficaci e cinici dell’intera serie. Moriamo perché ci è impossibile vivere, viviamo perché non riusciamo a morire. Pizzolatto scrive un trattato di filosofia che varrebbe la pena insegnare a scuola, crea due personaggi fragili, schegge impazzite della postmodernità, due naufraghi che, più o meno consapevolmente, maledicono di essere nel mondo eppure non riescono a lasciarlo, “pensa all’arroganza che ci vuole per strappare un’anima dal piano della non esistenza e ficcarla in questa carne. E per portare a forza una vita in questo immondezzaio.”
Nello stile di Fukunaga c’è molto di David Lynch naturalmente, ma anche molto di David Fincher e del suo Seven, le ambientazioni noir, la fotografia fredda e opaca, il racconto in campo lunghissimo del male più spaventoso, quello che ci siede accanto, quello chiuso nella cantina di una casa appena riverniciata o nei dormitori di una scuola. Il male naturale nato con l’uomo e dall’uomo.
Nel racconto nichilista della realtà più oscura, ma poi non così fantasiosa se si scorrono rapidamente le news di una qualsiasi telegiornale statunitense, c’è tutta la libertà creativa che un tempo apparteneva al cinema, ma c’è, più di ogni altra cosa, quell’onestà intellettuale e trasparenza che di rado si vede nei prodotti del mercato nostrano, quando persino i titoli vogliono ingannare, e che, invece, è il motore e l’elemento attrattivo della nuova serialità a stelle e strisce.
Non si tratta di avere stomaci forti (beh, forse un po’ sì), ma occhi attenti e mente aperta. Siamo certi che per questo Rust Cohle ci offrirebbe da bere.
Chiara Ribaldo | Bake Agency