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Dio è Uno che cancella il debito. “Un cuore nuovo” di Beatrice Fazi

Lo dico subito. I libri dei “convertiti”, degli “illuminati”, dei “testimoni” mi hanno lasciato quasi sempre indifferente. Per non parlare poi della irritante profondità arida di molti teologi. Raramente ho trovato qualche sprazzo di luce contaminante e l’autore di turno mi è apparso sempre rinchiuso nella sua asserita e, lo spero per lui, realmente acquisita beatitudine. Spesso ho avuto la sensazione di aver perso tempo: Dio per me è altrove. Soprattutto nelle relazioni della quotidianità: nello studente indiano e induista che per sbaglio entrò nella mia aula alla Sapienza e ci restò fino a fine corso per capire il senso di quella apparente casualità, nell’inciso “pur sempre amandovi” di Paolo VI agli “Uomini” delle Brigate rosse, nella costanza della carità di mia madre verso gli ultimi, nei presepi di mio cognato, nel rapporto con l’handicap di una sorella, nel dialogo periodico con la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio.

Per questo accolsi con qualche perplessità i progressivi e “gaudiosi” annunci di mia moglie Daniela: “Beatrice sta scrivendo il libro!”, “Beatrice ha finito il libro!”, “Beatrice presenta il libro!”. E c’ero alla prima presentazione a Roma. Presentazione con un incipit invero un po’ preoccupante perché a introdurre era una tipa, di gradevole aspetto, ma molto sospensiva: ci preannunciava montagne russe emotive durante le quali avremmo visto ascendere Beatrice dagli inferi più profondi ai cieli più alti! Poi, saggiamente, ci pensava il collega di palcoscenico di Beatrice, Michele La Ginestra, a sdrammatizzare e a riportare le cose sulla terra, lì in una libreria di viale Libia.

Dopo qualche giorno “Un cuore Nuovo” ha cominciato a tallonarmi. Lo trovavo “per caso” sul tavolo in salotto, sulla scrivania, sul comodino. Pure in bagno. I cuori nuovi sono pieni di energie e deambulano, sappiatelo! Nella prima e quarta di copertina c’è una Beatrice e mezza, sorridente e serena ma per fortuna non serafica: una donna insomma terrena, non imperturbabile e si capisce che è anche capace d’incazzarsi alla bisogna. C’è sì una luce calda che l’illumina, di tre quarti dall’alto, ma non fa ancora aureola e l’effetto santino è nei limiti del tollerabile. Insomma fotografo (Damiano Rosa) e Art Director (Cecilia Flegenheimer) non hanno esagerato, anche se qualche tentazione devono averla avuta. Alla fine l’apro, il libro. Cominciando dalla fine e dall’indice, come sempre.

Scelgo il capitolo 7: “Pene d’amor tradito”. Ho infatti questa (pessima, secondo alcuni) abitudine di iniziare in maniera casuale. Insomma assaggio un libro come un piatto. Se mi piace, o almeno non mi irrita, allora lo leggo tutto in maniera sistematica. Nel capitolo Beatrice racconta una storia di “prima”: una storia comune, di passione e tradimenti, corna reciproche anche se non in perfetta parità, in definitiva gioie e sofferenze di due immaturi come tanti alla ricerca confusa di un equilibrio. In un episodio Bea denota una mira scarsa: tira una sedia all’amato dell’epoca ma non lo prende. Ed è contenta di non averlo beccato… Mi suona strano. Io in genere non tiro le cose. Ma quelle rare volte che è capitato, ci tenevo a cogliere il bersaglio. Anche il male insomma, secondo me, va fatto bene. Poi casomai… uno si pente.
Insomma nel capitolo scelto a caso, di luce della fede che rischiara la fatica di vivere ancora non se ne vede granché, solo questo sprazzo di buonismo di un’imbranata senza mira. Vediamo in seguito.

E l’ho letto tutto; sì, dall’inizio.

Un messaggio, due episodi e un coprotagonista silenzioso vengono fuori secondo me con forza coinvolgente:

• Il messaggio: Dio non è un giudice-ragioniere che ti chiede conto a partita doppia dei tuoi peccati, ma è sempre pronto a (ri)accoglierti. Dio è uno che cancella il debito, potremmo dire (anzi lo dico e ci faccio il titolo!)

• I due episodi sono: l’improvvisa irruenta consapevolezza di Beatrice, in quella Chiesa di via del Corso, che l’ostia è presenza viva del corpo di Cristo; e poi il battesimo del bambino mai nato. Sono i due passaggi che mi sono rimasti più impressi, nei quali ho avvertito una contaminante profondità. Di quelle che restano

• Il coprotagonista: Pier Paolo, compagno prima, marito poi di questa donna in via di cotanta progressiva illuminazione. Sono entrato in rapporto empatico con lui nella seconda parte del libro: ché stare vicino ai “chiamati”, e soprattutto dentro alle comunità dei “chiamati”, è proprio cosa difficile.

Sinceramente non è una scrittura che lascia stilisticamente il segno quella di Beatrice, però ha la forza dialogante e sincera del diario, che si scrive innanzitutto per sé, anche quando pensiamo di scrivere per gli altri. E si fa perdonare alcuni passaggi da neo illuminata euforica: affastella un po’ troppe cose insieme (i Sette Segni, gli esercizi ignaziani, i Sette Cammini, le Convivenze…) che forse andavano proposte a noi lettori profani in maniera più accessibile.

La sincerità di Beatrice la porta a sottolineare che il cammino di conversione non è lineare, si continua a cadere e a rialzarsi ma avendo finalmente uno scopo e una meta, la gioia della fede non rende automaticamente perfetti e talvolta cede ai nervosismi della quotidianità. Beatrice inoltre non occulta certe ruvidità e durezze crudeli dei gruppi ecclesiali che si chiudono a riccio di fronte a scelte che giudicano non ortodosse e giungono fino all’espulsione dalla comunità (“quella sera stessa, senza nessuna deroga, fummo invitati a lasciarla per sempre”). Questa sorta di concorrenza, spesso spietata, tra comunità ecclesiali è costantemente tra le righe delle pagine finali del libro ed è testimonianza del candore narrativo di Beatrice che -ripeto- è il tratto più caratterizzante della sua narrazione. Sincerità tutt’altro che scontata per una che fa l’attrice: il rischio di cadere nell’interpretazione della convertita c’era tutto. E c’è ancora e ancora più forte nella fase di divulgazione e testimonianza (Attenta, amica mia Beatrice Fazi da Salerno fu Rosario, che le spire della spettacolarizzazione da un lato e della strumentalizzazione dall’altro sono sempre in agguato…).
Credo, infine, che “Un cuore nuovo” sia un inno al sacramento della confessione. Un inno a gola spiegata. Beatrice da quando si è convertita ha scoperto che “la confessione non è né una tintoria né una tortura. Gesù ci aspetta come siamo” come ha detto in maniera scandita quel gran comunicatore di Papa Francesco.

E, allora, lei si confessa a tutto spiano: una confessante seriale. Anche con questo libro che, alla fine, questo è: una lunga confessione partecipativa che genera una lettura empatica. Ho seguito fino in fondo il racconto di Beatrice che, accorgendosi di camminare su una strada senza sbocco, decide di tornare sui suoi passi e di abbandonarsi a Dio: una conversione, alla lettera. E l’ho fatto senza fatica e con qualche gratitudine, nonostante la premessa.

“Un cuore nuovo. Dal male di vivere alla gioia della fede”
di Beatrice Fazi
PIEMME edizioni 2015, pagg 209

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