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Disattesi e scontenti. I film che (non) vincono a Berlino

Accade davvero di rado che alla fine di un festival o di una premiazione sia soddisfatta dei risultati o mi trovi in piena sintonia con la giuria tecnica, con i giudizi e le valutazioni del Gotha della critica mondiale, tanto da chiedermi se non sia più proficuo per me e per i miei lunghi anni di studi sul cinema affittare un dvd dei Vanzina (non potrei mai comprarlo) e disertare ogni manifestazione cinematografica che non sia la Notte degli Oscar, perché almeno lì vince l’“onestà”, ad esempio chi ha perso più chili rischiando la vita e, forse, un divorzio, chi ha rilasciato più interviste nei talk che contano e promesso di girare sequel di kolossal con mostri giganti e sventole bionde in latex. Almeno all’Academy non si nascondono dietro un dito.

Ora, Berlino aveva qualche piccolo capolavoro, la genialità di Anderson, l’innovazione linguistica di Linklater, ad esempio, o il vigore registico del giovane Demange, solo per citare qualche nome, invece sceglie di premiare un film orientale – di un Oriente lontano dal lirismo alla Wong Kar Wai o dall’irriverenza alla Takashi Miike – che sembra fare il verso a buona parte della filmografia dei fratelli Coen, Fargo su tutti.

Ad aggiudicarsi l’Orso d’Oro per il miglior film è, infatti, il noir Black Coal, Thin Ice del cinese Diao Yinan, storia di un ex poliziotto, abbruttito dalla vita e dall’alcol, che dopo anni si rimette sulle tracce di un killer seriale, sua vecchia conoscenza, aiutato da una ragazza di cui finisce per innamorarsi e che, neanche a dirlo, sarà la chiave per risolvere il caso. Forse il dettaglio che il presidente di giuria, James Schamus, sia uno sceneggiatore e il braccio destro di Ang Lee non è poi così trascurabile e di certo la pellicola di Yinan è ben scritta. Il film piace così tanto da ricevere anche l’Orso d’argento per la migliore interpretazione maschile, che va a Liao Fan, con buona pace di un sempre impeccabile Stellan Skarsgård, protagonista del thriller scandinavo In Order of Disappearance di Hans Petter Moland o di Forest Whitaker l’ex detenuto di La voie de l’ennemi di Rachid Bouchareb o, ancora, del giovanissimo Ivo Pietzcker il Jack dell’omonimo film di Edward Berger. Forse i primi due sono troppo famosi per vincere ad un festival europeo e l’ultimo è troppo giovane per sollevare da solo un orso, Berlino non è mica la Los Angeles di Shirley Temple, buon anima.

 The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson si aggiudica solo il Gran Premio della Giuria grazie, pare, ai suoi giurati più “mainstream” Christoph Waltz e Michel Gondry, peccato che al momento della consegna il regista fosse già lontano. Forse non è il suo film più riuscito o, semplicemente aspettative troppo alte finiscono sempre per essere disattese, quel che è certo è che visti i concorrenti la pellicola di Anderson avrebbe potuto ottenere qualcosa di più.

A vincere, invece, il Premio per la miglior regia, quello che a tutti gli effetti considero il vincitore morale di questa 64esima edizione del festival: Boyhood di Richard Linklater. Ora, nonostante sia un riconoscimento più che prestigioso, questo mi ha riportato con la memoria al 2008 quando Non è un paese per vecchi strappò l’Oscar per il miglior film e la miglior regia a quel capolavoro che è Il petroliere di Paul Thomas Anderson e al lungo e intenso piano sequenza, degno (so di non esagerare) dei titoli di testa dell’Infernale Quinlan Niente da dire sui fratelli Coen,naturalmente, ma molto su come (non) ragionano gli illustri membri dell’Academy. Ho imparato la lezione.

Boyhood non è solo la mirabile messa in scena di uno strappo, il divorzio, e della crescita in tempo reale di un bambino che diventa in mezzo a quella frattura un giovane adulto, non è solo la capacità, sempre straordinaria, di Linklater di usare la macchina da presa con leggerezza e incisività insieme. È cinema, tempo cinematografico che si intreccia e si confonde con il tempo vero, con il presente e il passato, è il racconto del cambiamento senza imitazione o trucco. È sperimentazione del mezzo, come avveniva con l’underground newyorkese, con Warhol e l’uomo che dorme per ore, con la coppia che si bacia, con l’Empire ripreso giorno e notte nella sua fissità. È la vita che passa, con i suoi tempi comici e le pause drammatiche, mentre il cinema la guarda.

E se così non fosse sufficiente, aggiungiamo il Premio Alfred Bauer per l’innovazione dato alla commedia di impianto teatrale Aimer, boire et chanter di Alain Resnais, i cui principi e le cui teorie sul cinema ispirarono la Nouvelle Vague, ma che a 91 anni suonati ripropone (e come potrebbe essere diversamente) il medesimo gioco di realtà, finzione e assurdo che ha contraddistinto tutta la sua lunga carriera. Si può essere innovatori anche a 100 anni sia chiaro, ma è davvero questo il caso?

Perché, ad esempio, noi l’avremmo dato a Yann Demange e al suo ’71, terribile affresco del conflitto che sconvolse l’Irlanda del Nord per 30 anni causando più di 3000 morti, il debutto cinematografico del giovane regista ha avuto una eco internazionale, sul Telegraph Tim Robey lo ha definito “a blindingly strong feature that takes a bold sensory plunge into the Troubles”.

Il giudizio della giuria non si discute, per nostra fortuna però anche il pubblico ha avuto il suo momento premiando due titoli tra i più originali e interessanti: nella sezione Panorama, l’intenso Difret dell’etiope Zeresenay Berhane Mehari e in quella Panorama Dokumente Der Kreis – The Circle di Stefan Haupt, docu-fiction sull’omonima rivista elvetica rivolta ad un pubblico omosessuale nata a Zurigo nel 1932.

Il pubblico, si sa, ha sempre ragione, a differenza delle giurie che non ce l’hanno quasi mai.

 

Per conoscere gli altri vincitori

 

 

Chiara Ribaldo | Bake Agency 

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