Qualche tempo fa, nel corso di una conferenza, mi sono imbattuta in un concetto molto interessante: quello di empatia negativa.
Di cosa si tratta? L’empatia negativa, la cui definizione è stata data dai professori universitari Stefano Ercolino e Massimo Fusillo, indica un’attrazione che il fruitore di un’opera letteraria, cinematografica, teatrale o artistica può provare nei confronti di figure connotate negativamente, che dovrebbero razionalmente generare invece repulsione. Evidentemente, c’è qualcosa nel punto di vista del male che ci porta ad interrogarci su noi stessi, a porci delle domande molto più di quanto non ci inducano a fare rappresentazioni edificanti e moralmente ineccepibili.
L’empatizzare con un personaggio negativo, che mostra di avere, come chiunque, profonde fragilità, fa provare delle sensazioni ambivalenti. Finché si è immersi nella storia non ci si fa troppo caso, ma arrivati alla fine, ragionando sul personaggio, ci si sente anche magari un po’ meschini ad aver parteggiato per il “cattivo” di turno.
Alcuni personaggi, se filtrati dal punto di vista dell’eroe, appaiono solo deprecabili e abiette. Ma se viene lasciato loro il giusto spazio per emergere e dar sfogo ai propri pensieri e sofferenze, la loro caratterizzazione può cambiare. In questo caso entra in gioco un nuovo sentimento di comprensione e accettazione e, perché no, talvolta anche di immedesimazione in emozioni non sempre nobili.
Un esempio di empatia negativa dal mito: Medea
I professori Ercolino e Fusillo spiegano l’empatia negativa attraverso vari personaggi letterari. Tra questi figura Medea, donna della Colchide (nell’odierna Georgia) e figlia del re di quella regione. Il poeta greco Apollonio Rodio nel III secolo a.C. racconta che Medea un giorno vede arrivare nella sua terra la nave degli eroi greci chiamati Argonauti, capeggiati dal bel Giasone, di cui, per volere degli dei, si innamora. Medea decide di tradire la sua patria e la sua famiglia per aiutare Giasone nella sua impresa. Arriva anche a compiere – o a suggerire che lui compisse – gesti terribili, come l’uccisione del suo stesso fratello. Ma le azioni di Medea non conoscono limiti.
Euripide, nella tragedia a lei intitolata, messa in scena nel 431 a.C., ci racconta che, dopo tanti anni di matrimonio e dopo aver vissuto insieme prima a Iolco e poi a Corinto, Giasone la tradisce e decide di sposare proprio la figlia del re corinzio. A questo punto la rabbia di Medea prende il sopravvento e mette in atto una vendetta atroce. Prima uccide col veleno la nuova sposa di Giasone e il padre di lei e, infine, tragedia delle tragedie, uccide i suoi stessi figli. Perché fa questo? Da un lato per la consapevolezza che i figli avrebbero avuto una sorte orribile a causa delle colpe della loro stessa madre. Dall’altro per privare Giasone di ogni cosa a lui cara, anche se questo significava soffrire enormemente e macchiarsi di un crimine inaudito.
Ebbene, nel corso della tragedia lo spettatore (o il lettore), nonostante sia perfettamente consapevole degli omicidi che Medea si accinge a commettere, non può che provare per lei una compassione al limite della comprensione. E non può fare a meno di giustificarla e di accusare come carnefice Giasone, che con i suoi comportamenti e le sue scelte ha rovinato ogni cosa, portando la donna che diceva di amare a compiere un gesto estremo. Non si può che provare per lei, insomma, empatia negativa.
A far sì che il lettore/spettatore provi questo sentimento concorre ovviamente la caratterizzazione dei personaggi cattivi. Euripide, infatti, fa pronunciare a Medea nel corso della tragedia tre lunghi monologhi. Attraverso di essi, Medea mette a nudo i suoi sentimenti e spiega cosa la spinge a compiere quei gesti, seppur ovviamente si tratti di ragionamenti di una mente totalmente ormai offuscata dal dolore. Sentire le parole di questa donna “barbara” – che nell’accezione greca vuol dire straniera, non parlante la lingua greca – che per amore è stata disposta ad abbandonare tutto ciò che di più caro aveva e che ora si ritrova in terra straniera con un marito che non la vuole più e costretta all’esilio fa un po’ stringere il cuore allo spettatore. E non possiamo che provare per lei un po’ di pietà, nonostante le sue scelte sbagliate.
Una fiaba e la rivisitazione Disney
La letteratura e la cinematografia sono ricche di personaggi come Medea, malvagi e crudeli ma che, in fondo, hanno pur sempre un cuore ferito.
Pensiamo alla famosa fiaba che tutti conosciamo: La bella addormentata nel bosco. Appartenente alla tradizione europea e conosciuta già dal Seicento, la fiaba fu resa celebre grazie al film d’animazione della Disney del 1959. In questo racconto Aurora, la protagonista, dorme il suo sonno profondo a causa di un incantesimo che la strega Malefica le ha scagliato per vendetta verso i suoi genitori. Fin qui di Malefica conoscevamo solo il lato cattivo. Tuttavia, nel 2014 la Disney, attraverso il live action Maleficient, ha mostrato l’altra versione della storia, quella il cui l’antagonista diventa protagonista. Ed ecco che scatta l’empatia negativa.
Malefica ha le sue colpe: ha fatto addormentare Aurora ed è stata cattiva. Ma come si fa ad odiarla, ora che si conosce il suo passato, tutto quello che ha subito, il dolore che ha provato e prova? Indubbiamente la crudele vendetta che mette in atto non è la scelta migliore per riparare ai torti del passato. Eppure non si può comunque biasimarla e vederla come la carnefice.
I cattivi nelle serie tv
Fanno leva su questo meccanismo anche molte serie tv degli ultimi anni. Adesso però i protagonisti non sono personaggi d’invenzione, come Medea o la strega Malefica, ma uomini comuni macchiatisi di gravi crimini. Si fa il tifo per il professore di chimica Walter White di Breaking bad(2008-2013), che sfrutta le sue conoscenze per produrre metanfetamina e inserirsi nel mercato della droga quando scopre di avere un cancro ai polmoni. Si parteggia per la banda del Professore de La casa di carta(2017-2021) che rapina la Zecca di stato spagnola e la Banca di Spagna. Si è al fianco del serial killer Dexter nell’omonima serie (2006-2013).
Dexter per me è il caso più eclatante. Lo spettatore arriva a sperare che un assassino non venga mai scoperto e possa continuare la sua “normale” esistenza. Ad attenuare le colpe dei suoi omicidi concorrono due fattori: uccide solo chi è, come lui, un “cattivo”, cioè criminali che sono sfuggiti alla giustizia, e la sua malattia mentale, la sua sociopatia dovuta all’evento più traumatico della sua vita, avvenuto quando aveva due anni. I produttori sono riusciti a tenere alto l’audience per ben otto stagioni di una serie tv che porta a simpatizzare per un serial killer. Io sono certa che mai nessuno, guardando questa storia, abbia mai sperato che la vera identità di Dexter fosse scoperta!
Quando l’empatia negativa non attacca
Fusillo ed Ercolino tra gli esempi di empatia negativa includono anche Humbert Humbert, protagonista del celebre romanzo Lolita (1955) di Vladimir Nabokov. Nonostante il libro abbia come voce narrante il carnefice, il pedofilo Humbert Humbert, personalmente non credo che generi empatia. Il lettore prova solo ribrezzo per il protagonista, è scandalizzato dai suoi pensieri ed è sdegnato. Credo anzi che Nabokov volesse generare disprezzo e disgusto nei confronti del suo protagonista.
Non tutti i testi che hanno come protagonisti figure negative generano sentimenti di empatia nei loro confronti. Questo esempio dimostra come l’empatia negativa sia una strategia che viene consapevolmente adottata in un opera – letteraria, teatrale, cinematografica che sia – e che non è sufficiente assumere come punto di vista quello del “cattivo”, raccontare la sua storia personale e il suo passato per far sì che il pubblico sia dalla sua parte, lo comprenda e, in parte, lo apprezzi nonostante tutto.
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