Seconda parte
Nella prima parte dell’intervista con Fabrizio Taddei e Alberto Mariani, rispettivamente Head of Global Partnership Department e Creative Designer – Art Director di Erreà, abbiamo esplorato il processo creativo e le sfide che Erreà affronta nella realizzazione delle maglie sportive. Inoltre, abbiamo raccontato alcuni progetti di successo e ci siamo soffermati sull’importanza della comunicazione nel trasmettere l’identità del club.
In questa seconda parte, ci concentreremo sullo stato attuale del settore, sui cambiamenti in atto e su come Erreà sta rispondendo alle nuove sfide del mercato. Parleremo, anche, del confine sempre più sfumato tra sportswear e casualwear e delle strategie di espansione internazionale dell’azienda.
• Com’è lavorare come designer in un’industria stimolante come quella del calcio?
Alberto Mariani – È un lavoro non semplice, c’è una complessità strutturale nelle relazioni con i club, molto di più di quanto si pensi. Quindi molto bello, però anche molto complicato. La differenza sta nelle percezioni, cioè dall’esterno un tifoso non vede e non comprende alcuni processi.
Da dentro ti accorgi che il mondo del calcio è molto complesso, orientato fortemente alla realtà sportiva, un po’ meno focalizzato sullo sviluppo dell’abbigliamento. Questo può talvolta rendere un po’ complicato il processo. Gli interlocutori spesso sono degli ottimi tecnici del calcio, ma con minori conoscenze su altri aspetti come design, posizionamento, tessuti. Il nostro compito è quello di far sì che le diverse competenze arrivino al risultato finale desiderato da entrambe le parti.
Poi bisogna considerare che ogni squadra in realtà è un mondo a parte, quindi flessibilità è la parola chiave. Dal nostro punto di vista l’approccio può essere sempre il medesimo, ma poi il risultato e l’output passa per tutte le caratteristiche del club.
• In passato, le maglie rimanevano invariate per diversi anni. Oggi, molte squadre, come il Napoli, producono kit speciali per diverse occasioni durante la stagione. Qual è, secondo voi, la strategia giusta per un team sportivo riguardo alla quantità di maglie da produrre in una stagione?
Fabrizio Taddei – Noi abbiamo una forte collaborazione con ogni club, quindi, il nostro obiettivo è quello di soddisfare il club. Come in ogni cosa, personalmente penso, che la giusta via sia quella di mezzo. Normalmente, quindi, una maglia home, una away e una third e poi le divise dei portieri.
Un buon esempio da citare è quello del Middlesbrough che durante la stagione presenta una o due maglie speciali, cosa che male non fa. Anche con lo Sheffield abbiamo fatto, ad esempio, la maglia per il Capodanno cinese.
La strategia del Napoli è, secondo me, eccessiva, estrema, e se fossi un tifoso azzurro per me sarebbe un po’ troppo, perché diluisce anche l’importanza delle singole maglie.
La strategia ottimale è un mix che cerca di coniugare le esigenze del club e quelle di noi produttori. Le maglie vanno lanciate se hanno un senso, un significato. Altrimenti il tifoso non è stupido, non vuole essere la mucca da mungere. Poi, è ovvio che i tifosi alcune volte tendono ad essere eccessivamente “tradizionalisti” e non comprendono che cambiare il design delle maglie, andare a proporre cose diverse, alcune volte estreme, è una necessità del mercato.
Fare lo stesso prodotto con micro-variazioni per anni è qualcosa che possono proporre forse solo 3 o 4 brand al mondo. Quindi è ovvio che lo stimolo delle aziende è di cambiare. Poi è chiaro che ci vuole un equilibrio ed un rispetto verso la parte “religiosa” del calcio.
Alberto Mariani – Erreà ha sempre usato la strategia di inserire prodotti nuovi durante l’anno, anche in tempi non sospetti. Con il Parma avevamo quasi sempre 5 maglie ogni anno. Spesso usiamo questa strategia per raggiungere più target. Il target del tifoso, infatti, è, talmente ampio e diversificato che tre prodotti per 11 mesi possono non bastare per raggiungere tutti. Quindi, aggiungere un paio di maglie durante l’anno aiuta ad incontrare altri target e a dare spazio al club per comunicare iniziative o messaggi speciali.
• Il confine tra sportswear e casualwear è sempre più sfumato, con brand sportivi che collaborano con grandi marchi di moda (es. Milan – Off White). C’è, secondo te, il rischio che alcuni di questi brand diventino vostri competitor, come ad esempio Armani che produce per il Napoli?
Fabrizio Taddei & Alberto Mariani – Noi facciamo forniture sportive, quindi vendiamo il cosiddetto teamwear; quindi, Armani non può essere un nostro competitor, perché il settore del team e delle forniture sportive è una nicchia dello sport.
Ovviamente, come azienda, siamo attenti ai vari sviluppi del mercato, ma, al momento non pensiamo che questi cambiamenti possano creare problemi ad un’azienda come la nostra che è molto specifica in quello che fa. Anche perché, questi brand, che si stanno approcciando allo sport, difficilmente producono in proprio. Solitamente, appongono il loro marchio su qualcosa prodotto da terzi, cioè, passano la palla ad aziende esattamente come noi che però non hanno il proprio brand.
Da questo punto di vista, quindi, siamo abbastanza tranquilli. Dall’altra è vero che sempre più brand di altri settori sono interessati al calcio. Questo perché vogliono sfruttare la potenza e la visibilità del calcio. E la potenza della maglia, che, oggi, è l’oggetto di design con più potere di comunicazione.
Nessun altro settore, che sia la moda o la tecnologia, fa parlare quanto il calcio. Se oggi esce una maglia della nazionale viola e gialla, ne parla chiunque. Quindi la potenza è talmente ampia che riesce ad attrarre tantissimi brand desiderosi di comparire.
Poi, sull’effettiva partecipazione di questi brand allo sviluppo del prodotto ho molti dubbi. Spesso si vuole solo apporre il proprio logo, magari collaborare con la grafica, ma il prodotto rimane identico alle altre maglie.
• Erreà Republic nasce come risposta a questo scenario o è qualcosa di separato?
Fabrizio Taddei – In realtà, Erreà Repubblic è una specie di derivato di quello che noi abbiamo sempre fatto. Noi siamo stati molto in anticipo sui tempi, perché Republic nasce nel 2008, quando questa commistione tra sport e casualwear non esisteva.
Essendo siamo un’azienda manifatturiera, padronale, siamo un’azienda flessibile ed abbiamo saputo interpretare una domanda che in quel momento si era venuto a creare qui a Parma. Intuendo un piccolo gap nel mercato, abbiamo semplicemente trasportato il nostro know how per fare abbigliamento sportivo, creando dei capi che andavano bene anche per il tempo libero, perché erano più comodi, più semplici da lavare e da asciugare.
Così, abbiamo creato un un’azienda nell’azienda, un marchio nel marchio. È quello che sta succedendo adesso con tanti altri brand, quello che chiamano Athleisure, un mix tra la tecnologia e i tessuti impiegati nello sport ma utilizzati per la vita di tutti i giorni. Noi ci siamo arrivati nel 2008, con molti anni d’anticipo.
• Quali sono state le sfide principali nell’espansione che Erreà ha avuto in oltre 80 paesi? Ci sono nuovi mercati su cui state puntando?
Fabrizio Taddei – Noi siamo un’azienda familiare, quindi ci siamo sempre mossi cercando di fare i passi che potevamo permetterci di fare. Lo sviluppo è avvenuto nel corso di anni, in maniera organica. È stato fatto “alla vecchia maniera”, analizzando il mercato, capendo dove sarebbero emerse delle possibilità di sviluppo, dove lo sport stava crescendo e bussando alle porte di quelli che avrebbero potuto essere i nostri clienti. È stata quasi una vendita porta a porta.
La crescita globale è iniziata nel 1996. Prima l’azienda, che è nata nel 1988, vendeva quasi solo in Italia. Quando si è cercata un’apertura è stato naturale partire dall’Europa. Così, siamo andati in Francia, in Inghilterra e in Spagna, paesi geograficamente vicini. Poi, siamo stati i primi, nel 1997, ad esplorare l’opportunità in Medio Oriente.
Una cosa veramente creata da zero assieme a tanti colleghi con una crescita graduale, passo passo, che ci ha permesso di adattare il nostro reparto produttivo per star dietro alle aumentate richieste di prodotto.
Oggi abbiamo anche distributori in America e Australia, ma l’Europa e il Medio Oriente restano le aree per noi più importanti. Questo perché c’è una difficoltà oggettiva dovuta dalla lontananza e dalla differenza dei mercati.