I fondatori, grandi uomini, della benemerita e celebre Accademia d’Arcadia ebbero per principal scopo nel prendere i nomi egli usi de’ greci pastori e persino il loro calendario, di romper guerra alle gonfiezze del secolo, e ritornare la poesia italiana per mezzo della pastorale alle pure e belle sue forme. Fingendosi pastori, immaginandosi di vivere nelle campagne, bandito ogni fasto, tolto fra loro ogni titolo di preminenza, studiando ne’ classici greci, latini, e italiani, vennero naturalmente da sé stesse a cadere quelle ampollose metafore, que’ stravolti concetti, e quello smodato lusso di erudizione, che formava la delizia non de’ poeti soltanto, ma eziandio de’ più applauditi oratori sagri, e su cui stoltamente si riponeva la sede del sublime e del bello.” (Manifesto letterario dell’accademia dell’Arcadia).
Nella pittura di genere veneziana del rinascimento maturo si fa riferimento a questa espressione per descrivere quel particolare uso tutto pagano e cattolico al tempo stesso del “memento mori”, il “ricordati che devi morire” di Savonarola. Anche in un contesto bucolico- come la pittura di paesaggio richiedeva- fra flauti di Pan, ninfe e liuti spesso spuntava fuori in un angolo un teschio con un cartiglio che ricordava come anche nell’Arcadia, la mitica terra dei pastori del Peloponneso, la morte guarda la vita con sdegno.
Il tema dell’Arcadia è fondamentale per capire anche il secolo dei lumi, che sul finire del seicento prepotentemente bussava alla porta della poesia classica come risposta all’effimero e sofisticato barocco dove la parola è guitta.
L’accademia dell’Arcadia, fondata dall’eccentrica Cristina di Svezia prima del 1689, si proponeva di tornare ai fasti della poesia omerica e in parte a Petrarca, neoclassico per eccellenza (l’incompiuto poema “Africa” ad esempio) come a disegnare un confine più prossimo al grande passato latino. Gli Arcadi dal 1725, grazie al munifico re del Portogallo, risiedevano nell’orto patrizio dei Livi che venne ribbattezzato Bosco Parrasio: è un boschetto in mezzo al Gianicolo, con un monumentale ingresso da via Garibaldi, Trastevere. Dentro c’era un teatro, sintomo del gusto tutto barocco -ancora- per l’autorappresentazione, anche in ambito letterario. “Un vaghissimo teatro di verzure”, una scenografia en plein air ridisegnata nel verde di una Roma che ancora, agli albori della propria urbanizzazione, lottava contro la campagna che la circonda. Oltre al teatro venne aggiunta una esedra per le adunate e una libreria/segreteria chiamata il serbatoio, con la sorprendente etimologia del “serbare”, conservare. Qui si tennero i giochi olimpici, il 9 settembre 1726, proprio alla base del grande scalone monumentale disegnato sulla falsariga di quello di Trinità dei Monti.
Quasi per contrappasso oggi, questo luogo mitologico e ormai spoglio è la residenza di Franco Carraro, già chiamato dai nemici “poltronissimo”, ex sindaco di una Roma grigia e inquisita. Carraro è affittuario del bosco che in precedenza fu residenza degli Agnelli. Nelle clausole del contratto con l’Accademia è espressamente richiesto che insieme agli appartamenti si debba aver cura delle strutture esterne. Non solo tutto è stato lasciato barbaramente decadere ma anche si è privata la città della vista di uno dei simboli del bel composto romano, quella sinergia cioè delle arti tutte che attraverso pittura, scultura, poesia e musica combuttava per il Bello. In tempo di occupazioni più o meno lecite e riuscite sarebbe bello dimostrare che anche la poesia è uno strumento di lotta.
Francesco Mandica | Bake Agency