Si è conclusa domenica l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma tra polemiche – inevitabili – e sorprese – perfettamente da copione. La direzione di Marco Müller non è piaciuta a molti tra giornalisti e addetti ai lavori per via di una selezione delle pellicole caotica ed eccessivamente eterogenea. Quello che all’inizio era stata presentato come il punto di forza di questa edizione, distintivo rispetto ad altre manifestazioni (il riferimento a Venezia era più che palese), alla fine si è rivelato il suo tallone d’Achille. Roma non è Toronto, non ancora almeno. Manca di credibilità e di forza internazionale, il che spiegherebbe l’assenza di alcuni registi e attori in concorso e, di contro, l’ossequioso coinvolgimento (fuori e dentro il red carpet) di Rai e Mediaset, che in Italia controllano buona parte della distribuzione cinematografica strozzando un mercato già debole.
Il festival – festa voleva essere popolare, anche se nei risultati non lo è stato affatto, seguendo l’esempio dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, a vincere il Marc Aurelio d’Oro per il miglior film è stato il mockumentary, Tir, di Alberto Fasulo, storia di un professore sloveno che diventa autotrasportatore. Il mondo futuristico ma estremamente attuale disegnato dal genio di Spike Jonze rimane fuori dalla porta. Dal grande raccordo anulare del Sacro GRA di Gianfranco Rosi, che a Venezia ha vinto il Leone d’Oro, alle strade d’Europa, il racconto cupo e realistico della società sembra essere un carta vincente, speriamo solo non diventi un filone natalizio.
Ci ha stupito molto anche la scelta di premiare come miglior opera seconda la pellicola di Scott Cooper, Out of furnace, un film, come qualcuno ha giustamente osservato, “nato vecchio” e che fa il verso al cinema americano degli anni ’70, quello di Martin Scorsese, Sidney Lumet, Michael Cimino, prendendosi palesemente gioco dello spettatore. È un film furbo, insomma, che almeno noi abbiamo già visto, non abbiamo colto l’originalità e la solidità che le è stata attribuita, ma probabilmente la giuria del Premio Taodue ha la memoria corta o una videoteca povera.
Molti sono stati i protagonisti di questo festival che hanno disertato la cerimonia di premiazione delegando figure improbabili come l’ambasciatore del Giappone o il distributore italiano, da Kyoshi Kurosawa, giudicato miglior regista per Seventh Code, a Scarlet Johansson e Matthew McConaughey, migliori interpreti rispettivamente per Her e Dallas Buyers Club, rendendo tutto straordinariamente grottesco, qualcuno tra i giornalisti ha malignamente fatto notare che a Venezia o a Cannes non accadrebbe.
Ma questo festival non è grande abbastanza, in fondo, è come un adolescente brufoloso in piena crisi di identità che non sa che fare della propria vita, da che parte stare o come riuscire a farsi notare dagli altri. Bisogna solo aspettare che trovi la propria strada e indossi il suo vestito migliore.
Nel frattempo, ci ricorderemo della sigaretta e della follia contagiosa di Joaquin Phoenix, delle parole preziose del maestro Jonathan Demme “amare il cinema significa raccontare storie”, delle orde di adolescenti in delirio per Jared Leto e Jennifer Lawrence, dell’eleganza di Scarlet Johansson, della paranza criminale e un po’ folle di Take Five, dei film belli e anche di quelli brutti, perché, come ci ha detto una signora, un giorno in sala: “Non capisco quelli che si prendono troppo sul serio a queste manifestazioni, quelli che si lamentano e basta. Andare al cinema è la cosa più bella al mondo, io amo il cinema, tutto il cinema, senza distinzione. Se sono qui è solo per divertirmi”.
Chiara Ribaldo|Bake Agency