“Sotto le sembianze della tolleranza, ogni interpretazione nasconde le radici della violenza.”
Umberto Galimberti – Interpretazione.
I fotografi professionisti impegnati nel campo del fotogiornalismo, oggi tendenzialmente lavorano isolati, realizzando progetti fotografici in situazioni estremamente complesse, spesso a rischio della propria vita e, successivamente, cercando di vendere le loro storie da soli o appoggiandosi ad agenzie. A volte ottengono una prima pagina, talvolta nulla. L’aspetto sconcertante è che, in ogni caso, noi lettori raramente veniamo a conoscenza della storia per intero. Anche da considerazioni come questa, ma non solo, è recentemente nata una nuova rivista: Me-Mo Magazine. Ma per capire il contesto in cui si inserisce è necessario fare un passo in dietro.
Le riviste e i giornali sono sbarcati sui nuovi media senza trovare una forma nuova adatta al mezzo, e la crisi che già attraversava da un decennio la carta stampata, ha fatto il resto. Pare, anzi, che non abbiano fatto propri gli insegnamenti di Marshall McLuhan*.
Oggi le testate giornalistiche di rado mandano sul posto i propri inviati, e sempre meno permettono che abbiano modo di approfondire e documentarsi in modo esauriente prima di redigere un articolo. Ormai sistematicamente, avvalendosi del “diritto di cronaca”, prendono le immagini di cui hanno bisogno, per corredare una notizia, direttamente dai profili social delle persone comuni. Le persone comuni sono diventate – volenti o meno- un vero e proprio strumento sul campo, a uso e consumo dei giornali.
Non resta che farsi alcune domande.
Accantonando in questa sede, la discussione che ne emerge sull’etica professionale e sui diritti d’utilizzo di un’immagine privata, cosa implica questo cambiamento per noi lettori?
Per noi lettori cosa cambia se i contenuti – le immagini – che ci arrivano come notizie, sono state realizzate da un professionista o da una persona comune con uno smartphone? Soprattutto cambia davvero qualcosa? E cosa rimane veramente a noi lettori con questa velocità, che talvolta riassume una questione complessa in un “pezzo” gridato in 140 caratteri e con una sola immagine?
Una volta ogni testata aveva un suo inviato, la conoscenza del posto e l’esperienza di quel professionista nel suo mestiere, non lo faceva soffermare alla superficie degli eventi. In generale, il lavoro del fotogiornalista è definito nello scopo: documentativo e narrativo, e non superficiale o casuale o fiction.
È evidente che ognuno di noi ora può scattare una foto e diffonderla in tempo reale. Ma siamo in grado di cogliere il contesto e spiegarlo a chi non era lì con noi? Proviamo a fare chiarezza. Il gesto di fotografare è solo la dimostrazione che siamo stati testimoni diretti di un evento – io c’ero. Questo gesto non dimostra che la foto sia esaurientemente descrittiva di ciò che è accaduto. E ancor meno la foto di per sé dimostra che il testimone non abbia volontariamente o involontariamente travisato il contesto dell’evento.
Faccio un esempio. Quando andiamo a un grosso concerto e scattiamo col telefonino una foto ricordo, rivedere quell’immagine a noi fa evocare il concerto. Se però la mostriamo a qualcuno, senza le nostre spiegazioni, con ogni probabilità potrebbe rappresentare un concerto di Springsteen tanto quanto uno degli One Direction. Imbarazzante. Se poi pensiamo che tutti quelli che erano al concerto avranno memorizzato esperienze diverse e nel racconto a posteriori c’è chi se ne sarà andato entusiasta e chi irrimediabilmente deluso.
Questo perché dimostrare di essere stati presenti è estremamente diverso dal raccontare la storia di ciò che è successo.
Bene, ora supponiamo per un attimo di trovarci davanti ad un fatto di cronaca, sotto le bombe, testimoni di un evento terroristico, davanti ad un esercito, cosa pensate che accada nella nostra mente da “non professionisti” con uno smartphone in mano? E nella medesima situazione come reagisce un professionista? Attenzione: nessuno mette in dubbio il racconto di un testimone. E il punto non è, neppure, se la foto è fatta con uno smartphone o un reflex. E non è nemmeno questione di capacità estetiche in situazioni estreme. Non dovrebbe nemmeno essere ridotto a opinioni sulla verità di un’immagine come sembra emergere dal vivissimo dibattito innescato recentemente a seguito del World Press Photo 2015**.
Il punto è: a noi lettori cosa cambia nel ricevere un’informazione in un modo o nell’altro? Cosa accade quando le informazioni ci vengono proposte dai giornali mettendo sul medesimo piano semantico chi ha fatto ricerca mettendo assieme contesto e testimonianze diverse e un mero elenco di testimonianze? Cosa perdiamo noi con questa approssimazione?
L’informazione ha tenuto conto del luogo, delle consuetudini, della cultura, della diversità di linguaggio, in cui si inserisce un evento?
Forse mi faccio troppe domande. Ma credo che in questo momento storico siamo più o meno tutti arrivati impreparati davanti alla potenza della trasmissione e dell’uso delle immagini nei nuovi media. Questa impreparazione ci riguarda tutti – adetti ai lavori o meno – perché ci trasforma in soggetti contemporaneamente strumentali e strumentalizzabili dell’informazione. Da un lato, l’accesso agli strumenti ci ha convinti di avere in mano la dimostrazione inconfutabile della verità per il solo fatto di aver fissato la nostra testimonianza diretta. Dall’altro ci siamo anche convinti, da lettori, che ciò che vediamo è “evidentemente” ciò che qualcuno in effetti ha vissuto e quindi insindacabile.
È chiaro che anche un fotogiornalista ha un suo punto di vista soggettivo, ma ha padronanza del mestiere. È vero che una sua foto può essere facilmente estrapolata da una redazione e distorta nel senso con un testo allusivo, ed è per questo che è importante per noi lettori non farci bastare una sola foto.
Noi lettori-testimoni oggi abbiamo un compito: aggiungere la nostra voce a quella dei professionisti. Siamo giustamente fonti. Il nostro ruolo può essere un ruolo sano, attivo di verifica o punto di partenza. I nuovi media ci offrono da una parte grandi opportunità con la nostra partecipazione attiva, e dall’altra grosse responsabilità, quelle di essere consapevoli di essere strumenti. Questa consapevolezza è fondamentale per garantire una maggior pluralità di fonti a supporto dell’informazione professionista. Ma senza professionismo non c’è vera pluralità, ma solo la mera illusione di essere informati.
I giornali non stanno accogliendo pienamente questa potenzialità innovativa. Spesso si stanno limitando a sopravvivere, riducendosi in molti casi ad una sorta di “agenzie”, dei selettori di informazioni captate dalla rete o fornite dai lettori stessi, che sono diventati i loro inviati in loco. Ebbene, se è vero che in generale questo è l’effetto sulle testate del loro cercare di sopravvivere alla velocità e alle sfide che li costringono i nuovi media, è anche vero che questa situazione, sta facendo emergere tutte le contraddizioni di un sistema che stava già facendo acqua da ogni parte. C’è di buono che le grosse crisi sono i punti di partenza per nuove esperienze significative, anche nel campo dell’informazione fotogiornalistica.
Ma c’è bisogno di coraggio. E mi sembra di aver trovato un pezzo di questo coraggio in un nuovo magazine uscito col primo numero a gennaio: Me-Mo Magazine.
Quando è stata l’ultima volta che avete letto un articolo a compendio di un reportage con 15 o più scatti fotografici? Forse solo se siete appassioni di fotografia. Ma in genere raramente c’è spazio per approfondimenti di questo tipo sulle riviste di informazione.
Pare però che qualcuno abbia deciso di cogliere l’eredità di McLuhan. MeMo ha un’idea forte: “pushing the boundaries of visual storytelling“, ovvero “allargare e ridefinire i confini della narrazione per immagini”.
Come lo fa? Lascio alle loro stesse parole la risposta.
MEMO è una cooperativa di fotografi di fama internazionale, impegnati nella diffusione di un’informazione indipendente basata sui diritti umani. Dopo aver lavorato con importanti testate ed agenzie, ed essere stati premiati con i più grandi riconoscimenti nel campo della fotografia, hanno deciso di unire le loro forze per sviluppare nuove forme di comunicazione mantenendo l’eredità etica del giornalismo classico. In collaborazione con il gruppo di informatici e grafici di Libre hanno sviluppato MeMo Mag, la prima rivista digitale che unisce le nuove tecnologie con il giornalismo di qualità, spingendosi oltre i limiti della narrazione nella nuova era dell’informazione digitale.
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Me-Mo Magazine from Libre on Vimeo.
“Il mezzo è il messaggio” e quindi per cambiare le regole del gioco è necessario creare un nuovo medium, in quest’ottica MeMo a mio parere è un magazine ma potenzialmente è anche una piattaforma con ampie possibilità di implementazione. Grazie alle capacità interattive, alla forza narrativa delle immagini corredate da didascalie, mappe, linee del tempo, suoni e grazie ai racconti diretti dei fotoreportagisti che corredano gli approfondimenti, il lettore ha tutti gli strumenti per comprendere cosa sta osservando. “Sfogliando” MaMo – uso sfogliando impropriamente perché le modalità di accesso lo rendono una vera e propria esperienza – possiamo osservare lo scorrere degli eventi come in un flusso su cui soffermarci con i nostri tempi, potendo comodamente leggere i testi in un secondo momento, o piuttosto tornare e ritornare sulle immagini dopo aver letto gli articoli. Ognuno è libero di crearsi il proprio modo per affrontare gli eventi drammatici e significativi della nostra storia contemporanea.
Un supporto digitale che affronta e cerca soluzione al nuovo rapporto tra fruitori dell’informazione e fotogiornalismo.
Ci riuscirà? Staremo a vedere.
Quel che è certo è che MeMo rimette al centro dell’informazione i progetti a lungo termine e nei suoi intenti ha quello di supportare i fotografi freelance – un tema molto delicato che in Italia è stato portato alla cronaca con la storia di Andy Rocchelli, morto lo scorso maggio in Ucraina (e premiato al WPP 2015!). Questo aspetto è altrettanto fondamentale. Tuttavia, parlare di questa rivista affrontandola esclusivamente in termini di qualità fotografica, pur essendo la parte che più mi affascina da professionista in questo settore, per ora sarebbe inutile a mio avviso. Se avete piacere e vi ho incuriosito, vi invito piuttosto a visitate il loro sito, scaricate l’app sul tablet e l’estratto gratuito del primo numero e farvi un’opinione da soli.
La fretta con cui siamo abituati a poter accedere alle informazioni causa con sempre maggior evidenza incompletezza, alimentando, tra le altre cose, la violenza fine a se stessa e gli stereotipi, banalizzando gli avvenimenti o enfatizzandoli a sproposito, stendendo un velo di approssimazione su qualsiasi informazione, dalla cronaca locale alle questioni internazionali.
È un momento difficile per la carta stampata, per i giornali, per i giornalisti, e altrettanto per i fotoreporter. Ed è da loro che sono partita perché occupandomi di immagine sono di parte ovviamente. Ma è una questione che riguarda tutti noi come lettori, perché viviamo immersi nelle immagini sotto ogni loro forma possibile.
È necessario andare oltre i limiti evidenti a cui ci sta portando un’informazione semplicistica priva di reale pluralità. Non so se MeMo soddisferà questa esigenza ma ben vengano esperienze così interessanti e attuali.
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*Potete trovare una brevissima riassunto del pensiero di McLuhan QUI – McLuhan e la comunicazione moderna: il mezzo è il messaggio. Esiste anche il suo sito ufficiale in lingua inglese: Marshall McLuhan ; ma data la complessità del suo pensiero ho preferito agevolare una comprensione con l’articolo sopra citato, se avete piacere di approfondire sul suo sito trovare anche tutti i testi dell’autore.
**Per i curiosi tra gli articoli che fanno il punto in maniera accorta sulle questioni emerse in questa edizione del World Press Photo 2015 c’è quella di Renata Ferri > Segnali di fumo dal Word Press Photo di Renata Ferri, ci trovare anche link utili e altri riferimenti su questo importante premio internazionale nel campo della fotografia reportage e documentaria.