Le ombre si allungano implacabili sui marciapiedi e sulle strade, sui monumenti eretti a futura memoria, sui palazzi del potere, quello che logora chi non ce l’ha. Inghiottono la luce e la risputano deformata, sembrano mostri, ma sono uomini. Ingorde, le ombre si prendono tutto, mentre all’alba quel che resta non sono che insignificanti briciole di vita perduta.
Ci sono stanze in cui non si entra neanche bussando, porte oltre le quali il male deborda come un blob incontrollabile, lunghi corridoi di menzogne, finestre dalle quali spiare e auto dai finestrini oscurati perché non si scorga dal di fuori l’inferno di segreti che si cela all’interno.
La realtà che ci viene mostrata è un castello di carte, precaria, fragile, effimera, finita. Come pedine in una partita a scacchi, siamo tutti sacrificabili, corruttibili, ogni figura nella scacchiera di un’apparente democrazia è solo una distanza, l’obiettivo è la testa del re.
Michael Dobbs nella sua lunga carriera politica – consigliere della Lady di Ferro, capo dello staff e vicepresidente del Partito Conservatore nei primi anni Novanta – ha fatto e visto di tutto nell’Inghilterra insanguinata dai Troubles irlandesi, dalle lotte per il salario, dai manganelli di uno Stato immobile di fronte all’interminabile guerra tra ultimi, consumata nei sobborghi dell’Est End londinese, mentre Margaret Thatcher tuona “la società non esiste”.
Dobbs ha lo sguardo privilegiato di chi è rimasto qualche passo indietro a godersi la battaglia, “meglio aprirsi una strada più sicura attraverso i cadaveri che volersi mettere alla testa di un esercito”, scrive nel suo House of cards, primo capitolo di una trilogia a sfondo, naturalmente, politico, poi diventata nel 1990 una miniserie televisiva di successo, trasmessa dalla BBC.
Quasi 23 anni dopo il drammaturgo americano Beau Willimon (lo sceneggiatore de Le idi di Marzo) riprende quelle pagine per adattarle alle bianche colonne neoclassiche del Campidoglio e ai rapaci in doppiopetto che lo abitano e ne fa una serie televisiva di culto. Da Downing Street alla Casa Bianca la lezione di Dobbs però resta la stessa: “la politica richiede sacrificio. Il sacrificio degli altri ovviamente”.
È una tragedia shakespeariana quella del deputato democratico Frank Underwood, capogruppo di maggioranza al Congresso, interpretato da un superbo Kevin Spacey, e di sua moglie Claire, il volto bellissimo e glaciale di Robin Wright. Se Riccardo III o Macbeth fossero vissuti a Washington nel ventunesimo secolo, è così che il Bardo ne avrebbe scritto, la sete di potere e di vendetta è, infatti, la stessa negli uomini fin dalla notte dei tempi.
Come il deforme principe di York, anche Underwood siederà su un trono sudicio di sangue, entrambi affabulatori carismatici, abili strateghi e manipolatori, sono gli attori e gli spettatori della propria spietata messa in scena. “Ho tramato complotti, avviato insidiosi tranelli fondati su insensate profezie, maldicenze e sogni, per suscitare odio mortale”, rivela al pubblico Riccardo. Oratori affascinanti, riescono a trasformare la parola in azione immediata ed è un’azione sempre malvagia. Frank rivolge lo sguardo in macchina, ci parla, ci costringe a sapere, rendendoci complici del suo pensiero. Siamo vittime consapevoli e compiaciute della distruzione che di lì a poco avverrà.
Al suo fianco, nella mortale scalata al potere per indossare la corona dell’uomo più influente del mondo, una Lady Macbeth vestita Ralph Lauren, con la passione per il jogging e le cause ambientaliste da milioni di dollari. “Prendi l’aspetto del fiore innocente, ma sii il serpente sotto di esso”, scriveva Shakespeare nel primo atto della tragedia sul sanguinario re di Scozia. “Seducilo, conquistalo, e quando si fiderà di te strappagli il cuore e mettiglielo nelle sue fottute mani” è quello che, invece, dice Claire a Francis. Voti, spade, leggi, battaglie, il tempo non fa alcuna differenza.
Seguono gli abissi, mentre i quasi sovrani sembrano costantemente ad un passo dalla gloria, avvertiamo l’odore delle macerie, lo sgretolarsi di ogni speranza di successo, l’imminente catastrofe che trascina con se cadaveri e promesse. Per quanto attentamente dissimulata, la fine è lì.
“Domani nella battaglia pensa a me e cada la tua spada senza filo. Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sulla tua anima, che io sia piombo dentro il tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”.
È la maledizione che la Regina Anna rivolge all’uomo che l’ha fatta uccidere, Riccardo prega, ma è troppo tardi. I fantasmi delle nostre azioni non ci abbandonano mai, restano attaccati, si sedimentano sul fondo delle nostre coscienze fino alla morte. Tutto è destinato a implodere sotto il peso dell’ipocrisia che lo ha generato; in una partita a scacchi, lo scacco al re può rivelarsi delle volte una mossa inutile e azzardata. Questo valeva nell’epoca elisabettiana e vale ancora oggi nell’America di Obama.
I fantasmi di Frank e Claire saranno feroci, saranno le ombre che fagocitano ogni cosa, il cuore, la mente, la vita. “Dispera e muori”.
House of cards è l’ennesimo esempio di un’evoluzione inarrestabile che coinvolge l’intera filiera dell’industria, non solo la produzione, sempre più cinematografica, ma anche la distribuzione. È, infatti, la prima serie i cui diritti sono stati acquistati da un servizio di streaming e non da un emittente televisiva. Neanche l’HBO questa volta ha potuto nulla contro l’offerta di Netflix. “Questo è il futuro. Lo streaming è il futuro”, ha proclamato entusiasta Willimon su The Hollywood Reporter.
In Italia, intanto, la prima stagione, prodotta da Kevin Spacey e David Fincher e andata in onda su Sky Atlantic, si è appena conclusa. Bisognerà aspettare l’autunno per conoscere le prossime mosse, a meno che non seguiate il consiglio del suo ideatore e scegliate il futuro.
Chiara Ribaldo | Bake Agency