Haruki Murakami, Ritratti in jazz, Einaudi [usr 4]
Potrebbe sembrare un nome un po’ troppo consunto per una pubblicazione di Murakami Haruki (1949), il più importante scrittore giapponese che ci ha irretito di recente con la sua quadrilogia IQ84, lussurioso feulleton orwelliano. Quasi un ossimoro questo espediente di affiancare a un breve scritto su un musicista un disegno di Wada Makoto, artista di quella cerchia neo-naif che non disdegna l’ingenuità. A specchio, anzi a chiasmo, la storia del jazz si rannicchia in queste pagine, un po’ di storia e un disegno accanto, una brevissima biografia dell’artista e un disco di riferimento. Fin qui potrei avervi raccontato di un libro tutto sommato compilativo. E invece non lo è affatto: Murakami si rivela un sensibilissimo ascoltatore di jazz, quasi un connoisseur. Racconta nell’introduzione di un rito quasi feticista nel sedersi in poltrona e accarezzare i vinili da mettere sul piatto (non ama il supporto digitale, ma questa sembra più che altro una civetteria) gustandosi il proprio ragionare su una musica che in Giappone ha pari dignità della Classica. Questo non sempre è stato un bene, perché l’approccio al jazz dei giapponesi è spesso manierista e celebrativo. In queste pagine invece c’è una competenza e un affetto nei confronti di questo suono davvero commovente: la galleria di artisti è ben tornita, i fatti raccontati sono veritieri, ma a colpire è soprattutto l’intensità della scrittura di Murakami che esonda dal saggio e deborda nell’Io narrativo. Solo Pannonica de Konigswarter, la Didone del jazz, è riuscita a fare di meglio chiedendo a ciascun musicista tre piccoli desideri. Il libro, mai tradotto in Italia, si chiama “Les musiciens de jazz et leur trois voeux” (ed. Buchet & Chastel).
Francesco Mandica