E se un piccione appollaiato su un ramo ci osservasse, se seguisse le nostre vite un po’ strampalate, il quotidiano tran tran, quel procedere incerto dei funamboli improvvisati, che cosa vedrebbe?
Di certo, l’estraneità di quello sguardo coglierebbe il senso di smarrimento, quel vagabondare costante alla ricerca della felicità o, semplicemente, di uno scopo. Tutta la solitudine e il caos emotivo.
Il regista svedese Roy Andersson, dopo “Canzoni del secondo piano” e “You, the living”, chiude la sua grottesca trilogia sull’esistenza con l’ironico “A pigeon sat on a branch reflecting on existence” e si porta a casa il Leone d’Oro per il miglior film.
La pellicola, a metà tra il surrealismo di Luis Buñuel e il teatro d’avanguardia, racconta la storia di due venditori ambulanti e dei loro potenziali clienti cui provano a vendere oggetti divertenti o bizzarri. Costruito come una sorta di pinacoteca in movimento, il terzo capitolo sembra quasi una candid camera, la registrazione delle reazioni umane di fronte al perturbante, alla sorpresa dell’inspiegabile e dell’inaspettato.
Convince tutti lo humor nero di Andersson, lasciando il cinema italiano d’autore, su cui molti avevano scommesso, in sala ad applaudire.
Il talento italico, tuttavia, viene premiato con la Coppa Volpi ad Alba Rohrwacher per la sua interpretazione della madre sofferente in “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo. A vincere è anche il suo protagonista maschile Adam Driver, volto tv di “Girls”, giudicato migliore attore della kermesse.
Il Leone d’Argento di Venezia 71 va a “The Postman’s White Nights”, che segna il ritorno alla madre Russia di Andrej Konchalovskij. La storia di un postino tuttofare nello sperduto villaggio di Kenozero, è stata girata come un documentario, usando per lo più attori non professionisti e nascondendo al cast la presenza delle telecamere digitali. Konchalovskij firma il suo omaggio alla tradizione e alla resistenza, mentre fuori dal villaggio, dalla natura incontaminata e ancora selvaggia, il mondo avanza inarrestabile verso la modernità imposta dall’Occidente.
“The look of silence” di Joshua Oppenheimer, definito da Tim Roth “un commovente capolavoro”, si aggiudica invece il Gran Premio della Giuria. Dopo “The Act of killing”, il regista angloamericano gira un nuovo documentario sul male, scegliendo di raccontare il viaggio di un uomo alla ricerca dell’assassino del fratello durante l’efferata dittatura militare di Suharto che, alla fine degli anni 60 in Indonesia, portò al massacro di quasi un milione di persone, accusate di essere comunisti o dissidenti politici.
Se “Il giovane favoloso” di Mario Martone e “Anime Nere” di Francesco Munzi sono i grandi esclusi di questa 71° edizione del Festival del Cinema di Venezia, è un film italiano a vincere il Gran Premio della Giuria nella sezione Orizzonti, “Belluscone, una storia siciliana” di Franco Maresco, questa volta in solitaria senza il collega di una vita Daniele Ciprì. Maresco firma un mockumentary – lo stile è quello di sempre: grottesco, irriverente, non sense – che diventa poi un film sul film. L’universo dei neomelodici è il pretesto narrativo per raccontare la Sicilia all’indomani della scesa in campo di Berlusconi nel 1994, i suoi legami con la mafia e l’ubriacatura di un intero paese, incapace di discernere tra realtà e finzione, tra show e informazione.
A chi ha lamentato le scelte dei giurati, il compositore francese Alexandre Desplat, presidente della giuria, risponde quasi piccato: “Due premi a un film italiano non vi bastano? Per dieci giorni ci siamo scambiati opinioni, abbiamo discusso. Poi democraticamente abbiamo votato: questo è il risultato” e continua “abbiamo scelto di privilegiare gesti artistici forti, il cui contenuto filosofico e politico ci ha appassionati per aspetto politico. È un compito difficile giudicare i nostri colleghi ma l’abbiamo fatto con passione e onestà. Viva la musica, viva il cinema.”
E, in fondo, non sarebbe un vero festival senza le polemiche post-premiazione. Se potesse parlare, chi sa cosa direbbe il piccione appollaiato sul ramo che riflette sull’esistenza di tutto questo enorme circo, in cui tutti alla fine vissero felici e naturalmente scontenti?
Chiara Ribaldo