Il punto di vista di Marco Stancati sull’ultima fatica cinematografica di Nanni Moretti: “Mia madre”.
Dopo aver visto “Mia Madre”, posso dirvi che il manifesto, con Nanni Moretti in primo piano ma non a fuoco, è davvero un anticipo del film nel quale sembra cedere la parte di protagonista a Margherita Buy, che interpreta una regista con sindromi nevrotiche e apparentemente anaffettiva: insomma interpreta Nanni.
È un film tutto per sottrazione, con una cura meticolosa nell’evitare scene strappa lacrime pur trattando un tema viscerale come la perdita della propria madre. Sobrietà e autenticità a tutti i costi, anche a rischio di apparire sotto tono. Tutto è sussurrato, suggerito, raccontato con parsimonia di gesti e di sentimenti dichiarati: come un togliere continuato per giungere all’essenziale della vita che finisce e ci lascia nell’assenza di un legame così forte e nella solitudine delle domande.
No, non ho pianto mai; eppure il film mi ha coinvolto profondamente durante, dopo e mentre sto scrivendo. Così come l’interpretazione godibilmente comica di John Turturro di una stralunata star americana alla ricerca di un calore relazionale, non mi ha fatto ridere ma sorridere costantemente: memorabile la sequenza del balletto in occasione del compleanno.
Moretti interpreta il figlio Giovanni che, al contrario della sorella regista, ha voluto sottrarsi al lavoro per vivere passo passo la fine della madre: si concede la possibilità di dedicarsi a lei in maniera totale per vivere questo trapasso come occasione irrinunciabile. Lascia al suo alter ego Margherita Buy d’interpretare le nevrosi di un regista che forse non crede più nella possibilità del cinema di raccontare il mondo, di spiegare la quotidianità, di fare politica. Di farsi capire insomma, dagli attori prima ancora che dal pubblico. Sintomatico che le faccia confessare di non essere certa di capire, lei per prima, i consigli interpretativi che ripete agli attori.
Forse il figlio Giovanni è la persona consapevole che Nanni Moretti vorrebbe essere: capace di dare la priorità a un progetto esistenziale. Nell’era del consumismo emotivo, dei “casi umani” sotto i riflettori in cui tutto è esibito in maniera espressionista, si brucia in pochi istanti e non lascia tracce nella memoria, Moretti ci ripropone, senza alcuna forma di enfasi, l’istanza della cognizione del dolore. Nella sua dimensione apparentemente meno eroica: la quotidianità.