Esattamente 20 anni fa, a Cannes, Pulp Fiction vinceva la Palma d’Oro. Vincent Vega e Mia Wallace ballano ancora sulle note di You never can tell di Chuck Berry nonostante i capelli tinti, le zampe di gallina, Scientology e qualche chilo di troppo. Se la spassano sulla croisette, mentre dal cartellone il bel faccione di Marcello Mastroianni li guarda dietro i suoi occhiali scuri.
Nella sala Lumiere, il re Quentin Tarantino e la sua musa, Uma Thurman, consegnano la Palme d’or per il miglior film a Winter Sleep del regista turco Nuri Bilge Ceylan. 3 ore e 16 minuti di dialoghi densi, di campi lunghi sulla quotidianità di un ex attore, proprietario di un singolare hotel sulle rocce, di sua moglie e dei pochi ospiti. Una messa in scena complessa, teatrale e letteraria insieme, sulla condizione umana e i suoi limiti, identici a qualunque latitudine. Tra i critici c’è chi ci ha visto Cechov, chi addirittura il Bardo, in ogni caso a molti è sembrato tutto decisamente “troppo verboso e noioso”. Persino Jane Campion ha confessato di aver temuto per la sua salute quando le è stato detto che il film sarebbe durato quasi come due episodi de Il Signore degli Anelli, salvo poi definirlo “un capolavoro intelligente e sofisticato”. In ogni caso, è stata una fortuna per Ceylan che tra i membri della giuria non ci fosse Peter Greenaway.
Il Grand Prix Speciale della Giuria, lo stesso che nel 2012 andò a Matteo Garrone per Reality, è stato assegnato invece all’opera seconda di Alice Rohrwacher, Le meraviglie, premiata da una Sofia Loren celebratissima in questa edizione, un fatto che ha riportato i più nostalgici alla notte degli Oscar del 1999 quando gridò “Robberto!!!” alla vittoria di La vita è bella come miglior film straniero. Ora chissà quanti ripeteranno il mantra della “rinascita del cinema italiano”, senza comprendere che non è il singolo film o il singolo autore a poter da solo resuscitare un cadavere.
Le meraviglie, “una fiaba fatta di materia e di lavoro agricolo dove non c’è separazione tra tempo del lavoro e il resto”, come lo ha definito la giovane regista, ha commosso la giuria, facendo piangere persino il gelido Refn.
Timothy Spall e Julian Moore si aggiudicano i premi come migliori interpreti, rispettivamente per Mr. Turner del maestro Mike Leigh e per Maps to the stars di David Cronenberg.
Il Premio della Giuria è un ex aequo generazionale, poiché ad essere premiati sono il regista più giovane e quello più anziano del festival: il venticinquenne canadese Xavier Dolan con il suo Mommy (a cui, secondo i rumors, Jane Campion avrebbe voluto assegnare addirittura la Palma d’Oro)e Sua Maestà Jean Luc Godard, 83 anni suonati, per Adieu au Language.
Il Prix de la mise en scène per la miglior regia va all’americano Bennett Miller per Foxcatcher, terzo film dopo Truman Capote e L’arte di vincere, storia vera e drammatica dei fratelli Dave e Mark Schultz, entrambi lottatori olimpionici, interpretati da Mark Ruffolo e Channing Tatum, e del multimilionario John du Pont, uno straordinario e irriconoscibile, non solo per la trasformazione fisica, Steve Carell. La pellicola di Bennett in ritardo per gli Oscar 2014, potrebbe essere tra i film candidati per i prossimi Academy Awards. Noi scommettiamo su Carell e, ovviamente, su Miller.
La Camera d’Or per la migliore opera prima di tutte le sezioni va a Party Girl, del trio francese Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis. La pellicola d’apertura della sezione Un Certain Regard, fotografa la vita di Angelique, ex ballerina in un night club, alle soglie della terza età, tra ricordi, rimpianti e difficoltà di amare.
E, restando nella sezione Un Certain Regard, niente da fare per Incompresa di Asia Argento con Charlotte Gainsbourg e Gabriel Garko, mentre a proposito di cani attori vince White Dog dell’ungherese Kornél Mundruczó, che racconta così il suo film visionario e apocalittico sull’invasione di cani abbandonati dai loro padroni: “il senso di superiorità è diventato il principale privilegio e valore della civilizzazione occidentale ed è divenuto impossibile evitarne l’abuso […] Al posto delle minoranze ho voluto scegliere degli animali come soggetto del mio film, una specie derelitta che è stata una volta amica dell’uomo e che ora è costretta a rivoltarglisi contro pur di far valere la sua esistenza”.
Restano a guardare, purtroppo, i fratelli Dardenne con Deux jours, une nuit, a lungo applaudito durante la proiezione riservata alla stampa, senza dubbio il film più attuale di tutto il festival e il più universale dell’intera filmografia dei due registi belgi. Marion Cottilard è Sandra, un’operaia costretta a fare i conti con un sistema gretto e individualista che mette i lavoratori gli uni contro gli altri: “l’idea per il film viene da storie accadute dove abitiamo, in Belgio, ma anche negli Stati Uniti, in Italia. Per colpa della crisi economica il cinismo dei padroni ha costretto i lavoratori uno contro l’altro”.
Riconoscere la forza di questo film avrebbe significato riconoscere la forza del cinema e la sua inclinazione politica, nell’accezione più virtuosa del termine. Invece, a prevalere è stata, temiamo, solo l’estetica, anche se non ne siamo sorpresi considerando i membri della giuria che proprio sull’estetica, spesso vacua, hanno costruito una carriera. Ma questa purtroppo è un’attitudine di molti festival.
Cannes si chiude con l’addio del suo presidente Jacob Gilles, scivolato a inizio festival su un bacio innocente a una delle giurate, l’attrice iraniana Leila Hatami, poco gradito in Iran.
“Aiutare e celebrare il cinema” ecco cosa deve fare il presidente di un evento tra i più importanti e prestigiosi del mondo, speriamo che il suo successore, il giornalista Pierre Lescure, prenda nota, magari facendo attenzione ai baci.
Qui trovate tutti i vincitori di questa edizione.
Chiara Ribaldo | Bake Agency