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Il sabotatore del villaggio

magritte

« Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale. » André Breton

Magritte, il sabotatore tranquillo, al Moma di New York. Magritte: Il mistero dell’ordinario 1926-1938. Un periodo ben circostanziato quello in cui il pittore belga da Brussels prende il giusto transito verso Parigi e la nobiltà surrealista, un’accolita di artisti in cerca di cenacolo, giocolieri dell’inconscio e fantasisti dei processi di liberazione. Senza dover andare a New York, un eccellente applicazione interattiva ci guida lungo il percorso della mostra di Magritte entrando nel dettaglio di alcune opere. Il sito interattivo realizzato da Hello Monday è davvero straordinario e ad esso vi rimandiamo per un’accurata esplorazione e come esempio eccellente per la cura progettuale e l’efficace sintesi che realizza tra funzionalità (interactive design) e piacere grafico.

Liberazione da cosa? Non se ne può più della borghesia, quella con la bombetta in testa, un residuato bellico che Chaplin si mette in testa e che Magritte dona a personaggi in agguato e dotati di bastone oppure  ad uomini che piovono dal cielo come in un incubo seriale. Porteranno pure l’ombrello ma non sanno di essere la pioggia. Non c’è via di scampo. Le convenzioni sociali, quel famigerato patto sociale, vanno disintegrate e il surrealismo senza temere che la teoria diventi prassi costruisce il proprio immaginario e lo adegua a tecniche specifiche in grado di ingannare i sensi, sostituire Aristotele a San Paolo sulla via di Damasco, rovesciare le simbologie inconsce in effettivi frammenti di realtà.

A due passi da Freud, il sogno. Questo insieme alla follia è un mezzo. Un mezzo per trovare nuove vie di fuga. A due passi dal sogno, la pulsione primaria, l’amore e quindi l’eros. Duchamp giocava anche lui con le parole, e anche lui è al museo adesso a Roma in una mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea: Duchamp – Re-made in Italy. Duchamp è anche Eros Selavy. C’est la vie. Gioco di parole, il senso nascosto nell’ambiguità delle lingue. Una sorta di babele ritrovata. Tanto più la borghesia cerca sicurezze tanto più l’arte preme perché la struttura di dominanza ceda e venga giù.

Quella stessa borghesia che cammina verso il nulla nel refrain filmico che Bunuel colloca in aperta campagna.  Accanto a lui, spagnolo come lui, Salvador Dalì sgretola la realtà in sogni liquidi, il colore si scioglie come il senso sulla punta della lingua quando non troviamo la parola.

Se il Surrealismo insegue liberazioni, la pubblicità quali fughe prospetta contro il logorio della vita moderna e in che modo ha fatto proprio questo immaginario per veicolare i bisogni indotti, comunicare un messaggio?

Sia Magritte che Dalì hanno avuto a che fare con la pubblicità. Magritte si è anche avvicinato a quel canale di comunicazione lamentandone comunque un lavoro in diminuzione. Si scende di livello e quando si parla alle masse i contenuti perdono in forza e vigore. Così si lamenta.

Mentre Dalì seduto in quel caffè con Enric Bernat nel 1969 pensa ad una margherita gialla. Ne viene fuori il logo per un prodotto che Bernat ha messo con animo puro sulla bocca di tutti: il Chupa Chups.

A questa partecipazione diretta da parte del mondo dell’arte in campo pubblicitario fa seguito il processo inverso. L’occhio di Magritte, quello nel quale viene costipato il cielo suggerendo una purezza e un  ampio margine di respiro dietro uno sguardo del genere viene preso dalla CBS e diventa un logo. Altre campagne, una per tutti, quella della Volkswagen, prende riferimenti diretti ed ispira la propria iconologia pubblicitaria ad elementi che fanno parte della ricursività totemica dei suoi quadri. L’inconscio appartiene al Surrealismo quanto alla Pubblicità? Questa volta a due passi da Socrate e dalla sua maieutica. Il marketing, lo ricorda Philip Kotler in Marketing Management, è l’arte di tirar fuori i bisogni latenti, il desiderio di ciò che non sapevamo di desiderare. Un processo molto simile all’innamoramento. Non saprai mai di amare ciò che amerai ma che in fondo amavi da sempre senza saperlo. La Nutella o la passante all’angolo?

In questo modo la comunicazione visiva crea il proprio linguaggio attraverso tutto quel cifrario declamato o espresso sottovoce, quasi sussurrato che il mondo dell’arte spesso nasconde nelle pieghe dei propri significati meno evidenti. Un codice di decrittazione diviene necessario in quanto il senso è simbolico. In questo modo il percorso torna indietro fino al rinascimento intriso nelle sue pitture di riferimenti simbolici che se non afferrati possono rendere davvero parziale la comprensione di un’opera. Recuperando Panofsky, grande identificatore e cacciatore di simboli, quello che non cogliamo non ci raggiunge perché o non è diretto a noi – ovvero siamo fuori target – o non apparteniamo a quel contesto i cui riferimenti chiari ed evidenti per tutti a noi sfuggono.

E noi a quale codice apparteniamo? Siamo uomini o target?

Luca Perini | Bake Agency

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