Il regista premiato con il Maverick Director Award al Festival del Cinema di Roma
Non mi piace il genere horror. Lo splatter non mi si addice. Sono poco interessato ai videogiochi. Ho un modesto interesse per i manga. Con queste premesse, sarebbe logico che detestassi MiiKe Takashi. E invece mi affascina, pur vedendone i limiti nella ripetitività di alcuni meccanismi e nella debolezza quando si allarga a discorsi sulla trascendenza. Insomma da non prendere troppo sul serio; e lui stesso è d’accordo.
Mi piace perché la sua macedonia di horror, splatter, manga, videogiochi, estetizzazione della violenza e strambe trasgressioni sessuali è amalgamata da una solida cultura tradizionale dalla quale parte per fare innovazione di linguaggio: neo espressionismo nippo-ironico in salsa di frattaglie.
Il Miike Takashi pensiero è il condensato dell’incontro con la stampa del 19 ottobre al Festival del cinema di Roma dopo la proiezione di “AS The Gods Will”, e di alcune successive risposte a margine dello stesso.
- Non so a che genere appartengano le mie opere. Io faccio film. Le etichette vengono dopo, le mettono gli altri. Se “As The Gods will” sia un horror, una commedia o qualsiasi altra cosa decidetelo voi. Una volta che il film è finito, viaggia per il mondo. Che il mondo lo battezzi come vuole
- Io faccio innovazione con cose che esistono da molto tempo. Reinterpreto archetipi. Una bambola Daruma è la protagonista iniziale di questo film…
- I grandi classici della tradizione giapponese mi hanno entusiasmato da bambino e da adolescente. Sono il mio humus culturale e immaginifico. Spero che i miei film possano generare un minimo di quell’entusiasmo
- C’è una critica sociale nei miei film ai figli dell’upper-class nipponica, annoiati e sadici? Forse critica sociale è troppo. Certo quei giovani annoiati e patinati sono uno spunto e … una provocazione
- Il cinema italiano mi ha divertito e incantato: sto parlando sia degli “spaghetti western” sia di Fellini. Cose diverse ma entrambe profondamente vostre. E per questo valide e irrinunciabili per tentare di capirvi
- Bisogna conoscere quello che fanno gli altri ma poi fare quello che ci appartiene; la mia cultura è giapponese e anche la cosa più innovativa che posso fare sarà sempre profondamente appartenente a quest’universo culturale
- Ho lavorato all’inizio con piccoli budget. E sono disposto a farlo anche ora se me lo propone un produttore che ha uno sguardo credibile, da persona attenta e consapevole. Il “low budget” certo è un paletto; ma posso viverlo come una condizione di qualità e libertà
- America e libertà? Gli Stati Uniti sono un posto dove ti dicono che tranne un paio di cose, che tu accetti, sei libero di esprimerti come vuoi. Poi quando hai realizzato tutto, ti dicono “Ma Lei pensa davvero che possiamo mandare in onda questa roba?”
- No, io non rivedo mai i miei film. O, meglio, è rarissimo e casuale. Passo subito al set successivo, perché per me non c’è soluzione di continuità: è come una storia che continua
- Il film che mi rappresenta di più? [“Non amo questa domanda, ma arriva puntualmente…”] È e sarà sempre l’ultimo film che ho fatto; perché è quello che rappresenta il mio io più attuale