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Il Valore della Creatività

Nella nostra società, a partire dal dopoguerra, siamo passati dalla civiltà della scarsità alla civiltà dell’abbondanza, per poi ripiombare, come gran parte del mondo, ai margini del caos, come di Dee Hock definisce la zona che sta tra la turbolenza distruttiva e l’eccessiva lontananza dai problemi e dalla conseguente incapacità di risolverli.

Questo ci ha fatto altalenare tra l’abilità di cavarcela nel bivio vitale dell’Essere e dell’Avere: nella società basata sulla scarsità, non potendo puntare sull’Avere, non era poi così difficile consolarsi con la scelta dell’Essere. Poi questo, con il periodo dell’edonismo reganiano, sino dai tempi della “Milano da Bere”, si è trasformato nell’importanza dell’Apparire e questo, a dispetto della contrazione dei consumi, ha i suoi postumi ancora oggi nelle voglia di sorprendere, sia con l’abbigliamento, sia con l’uso ostentato del corpo: ne sono un segno visibile (e spesso risibile) i tatuaggi, i piercing, le vistose acconciature, le barbe curiosamemnte cesellate. Di conseguenza, questo desiderio di spettacolarizzare ogni cosa, di tramutare ogni azione in evento, di comunicare solo per il gusto di comunicare, ha creato un vero diluvio informativo che ha portato tutto ad emergere, a puntare in alto, ad assicurarsi notorietà, a contare di più, a valere di più. Lo insegnano anche gli spot pubblicitari (che sono lo specchio dei tempi) quando fanno affermare ai loro testimonial “Perché io valgo”. D’altro canto, oggi non si nega a nessuno un quarto d’ora di protagonismo, neanche alle suore, soprattutto se cantano: se un giurato iracondo abbandona un Talent, al suo ritorno gli ascolti raggiungono cifre da mondiale di calcio. Anche persone banali possono trasformarsi in modelli mirabili: basta confessare un tradimento, rigorosamente in diretta televisiva, o fare dichiarazioni d’amore stupefacenti, facendolo scrivere nel cielo dal fumogeno di un aereo.

In sostanza, ci manca l’Avere, non sappiamo Essere e rimediamo con l’Apparire, anche in modo grottesco.

Possiamo uscire da questo scadente percorso? Si, a patto che ci si occupi del nostro futuro guardando avanti in modo più consapevole. Partiamo da una constatazione: metà delle attività di oggi, tra venti anni, saranno scomparse; i lavori legati ai trasporti, alla logistica, all’amministrazione, saranno delegati ai computer. I lavori nuovi saranno quelli che richiedono empatia, creatività, capacità di negoziazione… tutti campi che un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non riesce a padroneggiare.

Noi italiani, flessibili, empatici, ingegnosi, dovremmo sentirci rassicurati, perché queste cose le abbiamo nel sangue. L’imprevisto e l’ambiguità (due cose che i computer non sanno affrontare) non ci spaventano. Sappiamo creare con gusto, sappiano produrre piacere e bellezza, tutta roba difficile da informatizzare. Grazie alla diffusione delle stampanti 3D la tecnologia potrebbe anche dare impulso alla nostra straordinaria vocazione di artigiani.

Ma dobbiamo però riconoscere il valore, anche economico, di queste nostre abilità. Oggi i lavori meno pagati sono proprio quelli creativi, alcuni dei quali non godono neppure dell’onore di una etichetta formale e, negli elenchi ufficiali, finiscono negli eccetera. Ma sono quelli che domani ci salveranno. E’ ora che la creatività sia riconosciuta. E, se possibile, ricompensata.

 

Immagine di copertina: © Elisa Biagi, Roma 2013

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