Nel 1967, ad Hollywood, gli Studios sembrano circoli per giovani autori freschi di studi, intellettualoidi scapestrati e democratici con la passione per il cinema europeo, quello di Monicelli, Truffaut, De Sica, Godard. L’aria che si respira è quella inebriante di una imminente rivoluzione socio – culturale. Fuori e dentro lo schermo il mondo sta cambiando rapidamente.
Quel 1967 è un anno emblematico per il cinema americano perché segna l’inizio di un rinascimento etico ed estetico mai più replicato. Una distruzione creativa in cui ogni elemento della “fabbrica” viene destrutturato e poi ricomposto, diventando per lo spettatore riconoscibile solo a metà.
Il 1967 è l’anno di “Gangster Story” e de “Il Laureato”, ma è soprattutto l’anno in cui Stanley Kubrick consegna all’età adulta un genere da sempre considerato di serie b, il cui pubblico è composto prevalentemente da adolescenti brufolosi appassionati di Ed Wood e pop corn glassati: la fantascienza, e lo fa con un film che è un complesso trattato filosofico sull’umanità e sulla tecnologia, “2001: Odissea nello spazio”. Le musiche di Strauss, le architetture futuristiche, l’uso sapiente e innovativo del silenzio diegetico, la quasi assenza di dialoghi, il realismo della rappresentazione – così distante dalla messa in scena delle precedenti pellicole – e lo stile documentaristico delle riprese, ne fanno un’opera autoriale unica e, insieme, per scomodare George Lucas, l’apice stesso del genere fantascientifico.
47 anni dopo, Christopher Nolan, regista della saga de “Il cavaliere oscuro” e “Inception”, gli rende omaggio e furbescamente vi pesca a piene mani per firmare la sua incursione nello sci-fi movie.
“Interstellar”, ispirato ai lavori del fisico teorico Kip Thorne, è anche essa un’odissea nello spazio e, in qualche modo, anche un viaggio nell’emotività umana, l’Ulisse – l’onnipresente Matthew McConaughey – è un contadino del Sud, un tempo astronauta, in cerca di una nuova Itaca, tra galassie e misteriosi buchi neri, su cui approdare per salvare i suoi figli e l’intera umanità costretta sul pianeta Terra, oramai prossimo all’implosione. Con lui un team di esperti e un computer dotato di intelligenza artificiale – una sorta di HAL 9000 ma senza istinti omicidi – il cui aspetto richiama esplicitamente quello del monolite nero del film di Kubrick. L’avventura spaziale, attraverso lo spazio e il tempo, si rivelerà più complessa e dolorosa del previsto.
Nolan ci consegna un’opera esteticamente perfetta, è il trionfo della bellezza attraverso l’alternanza di valzer musicali, questa volta di Hans Zimmer, e di silenzi assordanti, magnifici, lì dove l’immagine dello spazio infinito, riprodotta e immaginata nel minimo dettaglio sia geometrico che cromatico, prende il sopravvento su tutto, anche sugli attori (nonostante i divi nel film siano davvero tanti) e sulla storia (che in fondo è simile al plot di Armageddon). È un’esperienza immersiva che non consente pause, momenti di riemersione dall’apnea di piani sovrapposti tra reale e immaginario, tra passato, presente e futuro. È il connubio tra i salti temporali di “Memento” e quelli spaziali e ultra-dimensionali di “Inception”. Facile perdersi nel labirinto.
“Interstellar” non è il racconto di un’apocalisse, è più una favola sull’amore, l’elemento chiave della sopravvivenza della specie in qualsiasi condizione o luogo. In una nuvola di polvere, in un campo di mais in fiamme, dentro un bunker segreto della Nasa, in una navicella spaziale, in una galassia parallela o risucchiati dentro un wormhole. Lontanissimi e vicini, restiamo e ci scopriamo umani.
C’è molto di “2001: Odissea nello spazio” nella pellicola del regista inglese, una lunghissima citazione in digitale di quell’incredibile universo visivo “in cui tutto è scientificamente esatto e immaginato partendo dal possibile”, senza la quale, però, temiamo resterebbe davvero poco, qualche intuizione, forse, qualche schizzo folle, stralci di poesia come i bellissimi versi di Dylan Thomas dedicata al padre malato di cancro, ad accompagnare le immagini: “Non andartene docile in quella buona notte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce … E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi, Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego. Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce”.
Il kolossal di Nolan avrebbe potuto trasformarsi in un’esperienza visiva totale, aggirare la comprensione, la linearità narrativa, diventare un esperimento di pura visibilità, ma forse sarebbe stato altro e, d’altronde, come rispose lo stesso Kubrick decenni fa a chi gli chiedeva di spiegare il suo film: “Ognuno è libero di speculare a suo gusto”.
Chiara Ribaldo