Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Sapienza di Roma presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale CORIS, Presidente della Società Italiana Marketing, Direttore Scientifico Eurispes, Coordinatore del Master Marketing Mumm, Direttore del Master Management, Marketing e Comunicazione della Musica. Elencare tutte le attività del professor Mattiacci è impresa ardua. A noi è bastato incontrarlo lo scorso 15 maggio, durante il Philip Kotler Marketing Forum, a Milano, per capire che le sue parole vanno ascoltate, riascoltate, custodite. Del resto, la frase di Plutarco “Gli studenti non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere.” che campeggia sul suo sito web, www.albertomattiacci.it, non lascia spazio a dubbi.
1) Per dimostrarle che i suoi suggerimenti non ci lasciano affatto indifferenti, partiamo dalla fine, iniziando da un’angolazione diversa: al termine del Philip Kotler Marketing Forum, ha mostrato alla platea (o meglio, a quei pochi manager stoicamente rimasti in aula) una cartina del mondo rovesciata ricordo di un viaggio in Australia, accompagnando l’immagine con l’invito a non lasciarsi ingannare dalla solita prospettiva, a cercare nuove strade da seguire per cambiare quello che non ci piace. Mutuiamo questo concetto e adattiamolo al mondo imprenditoriale: è possibile modificare la percezione che il consumatore ha di un’azienda, semplicemente facendogli cambiare punto di vista? Oppure è necessario un lavoro più ampio, che comporta una radicale modifica di quanto realizzato fino a quel momento?
La ringrazio innanzitutto della considerazione e dell’opportunità che mi offre con questo dialogo. Venendo alla Sua domanda, sono convinto che, da qualche anno a questa parte, si vada affermando un nuovo standard di mercato, caratterizzato da una modifica strutturale dei rapporti fra domanda e offerta. L’esperienza di relazione virtuale che tutti facciamo sul web ha, per così dire, “appiattito” progressivamente ogni gerarchia e i rapporti fra persone –e fra esse e i brand- si esprimono sempre più spesso su un piano orizzontale. Non c’è più autorità senza autorevolezza, non c’è promessa senza riscontro, non c’è comunicazione senza un piano di esperienza comune fra le parti. Le conseguenze gestionali sono di grande momento, per esempio: la reputazione, asset immateriale di ogni brand, deve oggi poggiare su elementi, verificabili e consistenti, di prestazione effettiva; l’immediatezza (o, comunque, l’estrema rapidità) di risposta è un requisito di relazione senza il quale la certezza è una: perdere il cliente; la semplificazione dei processi e delle interfacce di dialogo è obbligatoria e deve portare ai minimi termini la distanza del brand con le persone. Modificare la percezione, dunque, è un lavoro complesso e reale: complesso perché implica l’agire su più piani contemporaneamente (ivi incluso quello delle relazioni interne all’impresa stessa), reale perché non è “solo” un fatto di comunicazione.
2) Capitalismo: un termine scomodo, in grado di creare scompiglio e talvolta fastidio nell’interlocutore. Il prof. Kotler lo ha citato a lungo nel corso del suo intervento, precisando che si configura ancora come il sistema migliore, ma avvertendo che se non ci sono consumatori disposti ad acquistare, è destinato a fallire. In uno dei suoi interventi, lei ha ripreso questo concetto, sottolineando come il primo capitalismo sia ancora quello buono perché mette l’azienda al servizio delle persone, mentre il capitalismo finanziario si configuri come uno dei mali dei nostri tempi. Cosa possiamo fare per ridurre lo spazio che il capitalismo finanziario ha conquistato negli ultimi anni, mettendo in serio pericolo la sopravvivenza di numerose economie?
I romani dicevano: “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Sottolineo perciò con piacere il fatto che sia un docente dell’università di Chicago –la stessa di Friedman e dei liberisti- a sollevare il problema della sostenibilità di quel tipo di capitalismo che lì è stato teorizzato e sostenuto con vigore: forse (forse), lì dentro ci si inizia a chiedere se, in fin dei conti, un certo modello di capitalismo sia auspicabile? La progressiva finanziarizzazione dell’economia è un fatto, la cui magnitudo ha superato, credo, ogni previsione e forma di controllo esterno possibile. Personalmente ne penso molto male, ma non nutro alcuna speranza sulla capacità della società civile di fermarne le molte e gravi derive. Ci vorrebbe una politica ispirata, autonoma e forte, ma quando leggo che l’ultima campagna elettorale di Obama ha visto toccare la cifra del miliardo di dollari investiti, chiudo la pagina, spengo la luce e mi metto a dormire, così magari riesco a vivere, nei sogni, in un mondo più vicino alle mie speranze.
3) C’è molto rumore intorno al concetto di sostenibilità, responsabilità sociale d’impresa, rispetto per l’ambiente. Il Prof. Kotler ha richiamato più volte la necessità di valorizzare il marketing umanistico, le campagne di Technogym hanno stupito per la grande attenzione e sensibilità ai temi sociali. Quali sono le best practices che un’azienda a digiuno di temi simili, può mettere in atto per iniziare un processo di miglioramento in tal senso? In altre parole, come fa un’impresa a diventare responsabile e, dunque, buona?
Mi aggancio alla risposta alla domanda precedente: un’impresa è “buona” se fa il proprio mestiere, che è quello di fare profitti, redistribuirli con equità e seguendo criteri di merito, agendo con senso di responsabilità in ogni direzione, dai rapporti con i propri dipendenti e soci a quelli con il territorio, dall’ambiente ai partner commerciali e via dicendo. La formula è semplice e nota: il profitto non può essere una variabile indipendente della formula economica. Siamo nel campo esattamente opposto a quello coltivato dalla finanziarizzazione dell’economia. A quel punto, se per un’impresa il profitto diventa la variabile indipendente, cui ogni cosa è assoggettata, a poco vale investire in progetti e piani di comunicazione “socialmente responsabili”, si tratta solo di fastidiose foglie di fico. L’umanesimo, che tanto piace citare, pone l’uomo come misura delle cose, non come strumento.
4) “Innovation means disruption”. Uno degli assunti più significativi dell’intera giornata, racchiude in sé il desiderio di futuro, cambiamento, crescita: il marketing può aiutare l’azienda a costruire il futuro, cambiandone l’attitude e contribuendo alla sua crescita. Il prof. Kotler sostiene che l’azienda destinata a durare nel tempo è quella che non smette mai di imparare e l’innovazione unita alla formazione porta dritti al marketing digitale: è la rivoluzione digitale la strada da seguire?
Penso che l’innovazione sia un’attitudine di pensiero che si fa processo e, infine, prestazione di prodotto e/o di brand. Penso si debba prendere atto che l’essere umano è, però, intimamente conservatore e perciò riluttante a tutto questo. Sta al vertice di ogni organizzazione –imprenditore, top manager, capo di Stato, Rettore universitario, eccetera- ispirare la macchina in tal senso, adeguando i processi e le relazioni interne e favorendo chi è più ricettivo a questi stimoli. E’ facile profetizzare che le strumentazioni e le logiche digitali sono e saranno il più grande driver di innovazione dei prossimi anni: penso che agiranno soprattutto nel rinnovare, nel ripensare cose che esistono. Mi attendo grandi stravolgimenti, per esempio, sul piano dei modelli e delle strutture educative: scuola, università, centri di formazione, non potranno continuare a lungo a perseguire un modello da prima rivoluzione industriale. Se l’innovazione interesserà anche i sistemi che formano le menti delle persone ne vedremo delle belle.
5) Durante il Forum le è stato assegnato l’arduo compito di introdurre sul palco il Prof. Kotler: lo ha fatto con estrema efficacia, ricordando semplicemente che il suo pensiero ha cambiato il mondo. Cosa ha rappresentato, invece, per il suo mondo di uomo di marketing tra i più importanti del nostro Paese, il lavoro di Philip Kotler?
La ringrazio per l’apprezzamento. Ho studiato sul suo libro, quando ancora nelle università italiane non si potevano nominare corsi con parole inglesi e quindi seguivo le lezioni di “Tecnica e politiche di vendita”, che era la formula usata a fine anni Ottanta per dire “marketing management” in università. Ho subito, da studente, il fascino di una formula di gestione economica dell’impresa che vedeva l’uomo al centro, nella forma del consumatore, certo, ma comunque si apriva la mente alle suggestioni delle scienze comportamentali. Da qualche anno, però, vivo con un certo (crescente) disagio quello che è a mio avviso oggi il grande limite del lavoro di Philip Kotler, che è stato un geniale assemblatore di idee e pensieri entro uno schema originale ed efficacissimo. Mi riferisco all’abitudine tutta americana di esprimere tassonomie, acronimi, regole rigide, procedure in ogni campo. L’economia di oggi, orizzontale, non può più governarsi con quel sistema di strumenti logici che, a suo tempo, erano efficacissimi, oggi francamente un po’ deprimenti. Credo che lo stesso Kotler sorrida al pensiero delle 4P e che abbia difficoltà a consigliare a un’azienda di seguire, passo passo, il rigido processo manageriale che ha proposto per decenni.
6) “C’è un tempo per fare e uno per pensare. Il tempo di chi fa impresa è intensamente speso nel fare, quello di chi studia e ricerca, nel pensare. Troppo di rado i due mondi s’incontrano. Eppure serve a entrambi.” Le sue parole hanno il grande pregio, tra gli altri, di far riflettere, in un mondo, quello del marketing, spesso troppo preso da logiche di profitto per fermarsi e capire. Cosa augura a tutti coloro che lavorano in questo settore perseguendo concetti di integrità morale, etica, umanità?
Il migliore augurio che posso fare è di maturare la consapevolezza che siamo entrati in un ciclo storico-economico che richiede più pensiero che velocità, più lentezza che azione. Non c’è attività –fra quelle esistenti- che non sarà ridisegnata nel profondo: alcune molto presto, altre più tardi, ma inesorabilmente tutte. È un fiume in piena che non si fermerà, occorre pensare a come farlo. In piena epoca digitale mi permetto di richiamare l’importanza dei libri: i libri sono i mattoni del pensiero. Prendiamoci tempo per leggerli, siano essi narrativa o saggistica: ci aiutano a guardarci dentro e fuori e a costruire pensiero nuovo, che è ciò di cui avremo bisogno.