Io ho due motivi in più per amare questo libro e soprattutto Angela, la protagonista. Perché l’Africa era nelle narrazioni turgide che ascoltavo come Bianca, da bambino. Racconti di mio padre, durante la guerra ufficiale medico in Libia, e di “zio” Eugenio che fu colono in Somalia ed Eritrea. E poi perché, figlio di madre nata in un paese svevo-normanno in Calabria, a scuola ero per tutti “il normanno”. Come Angela.
“… Invecchiare accanto a quello sconosciuto che l’aveva presa e condannata con l’inganno di una parola, che avrebbe potuto essere un complimento e invece era una gabbia.” Quanti fenomeni di proiezione può innescare una sintesi così? Quanta distanza c’è tra la persona che pensavamo avremmo avuto accanto e quella che ci siamo ritrovati? Quanta utopia c’è nel pensare che le persone non cambino o che evolvano soltanto secondo i nostri desideri? E quanto può essere spiazzante capire che tutte queste domande valgono, precise e identiche e puntuali e senza sconti, anche a parti invertite?
Nel caso dei due protagonisti del romanzo, la distanza diventa sconfinata. No, non sconfinata come un oceano, in maniera liquida ma sconfinata in maniera materica come l’Africa. E l’Africa trasuda da questa narrazione torrida, organolettica: i giorni pieni di luce accecante e le notti intrise di rumorosi silenzi, gli afrori e i profumi che, come i desideri e i disgusti dei protagonisti, ti si appiccicano addosso e vorresti anche tu lettore scendere al grande fiume Giuba, proprio come la nipotina Bianca.
E pure tu lettore, sarai incauto e guarderai le leonesse da vicino perché, quando sei totalmente compenetrato in un ecosistema, vita e morte sono momenti della stessa storia. E sentirai, come Angela, l’aria calda dell’elefante che le è addosso, mentre si chiede se e chi la salverà, e avvertirai tutta l’erotismo, più forte della paura, di quel contatto con il guerriero nero. Quel momento marchierà per sempre la vita della protagonista, dopo averne sconvolto gli ormoni: “L’avevano quasi uccisa i doveri, le regole, le cognate, i suoceri, la vigna, i campi, le mani spellate, nessun tempo per leggere neanche il vangelo. Così anche Dio se n’era andato, alla fine. E le era parso di morire. Poi era arrivata l’Africa e invece era rinata.”
È una narrazione spietata e tenera insieme quella di Roberta che scolpisce i suoi personaggi, compresa Bianca, il suo io bambino, che “detestava la campagna che poteva vedere e amava solo la savana che non conosceva”. Anche quando c’è una preferenza: per nonna Angela, che “era l’Africa”, e che grazie alla nipote torna a esserlo, semplicemente chiudendo ogni volta le palpebre. Perché a occhi chiusi, la rivede l’Africa e racconta, a se stessa e alla nipote, di quei congiunti problematici, ora euforici ora dannati, che vissero laggiù il loro pezzo di vita più vero. E dopo nessuno fu, mai più, il suo sé di prima.
Roberta Lepri è umbra, di Città di Castello. Penso che un’altra sola copertina sarebbe stata possibile per questo libro: uno dei grandi “Rosso” di Alberto Burri, tifernate come lei. E c’è, indubbiamente, più che qualcosa di Burri in lei.
Marco Stancati | Bake Agency
IO ERO L’AFRICA
di Roberta Lepri
Pagg. 171
Avagliano Editore
info@avaglianoeditore.it
ISBN 978-88-8309-380-7