Nei giorni in cui il grande italianista Tullio De Mauro ci ha lasciato, dedicare qualche riga all’italiano vuol essere un piccolo omaggio alla sapienza con la quale il professore ha sempre affrontato lo studio di questa lingua.
Se si pone l’accento sulla sua diffusione, l’italiano è in buona salute; se invece si parla del suo corretto utilizzo, la nostra bellissima lingua mostra dei problemi.
Partiamo dalla diffusione: è la lingua ufficiale di cinque paesi. Non tutti lo ricordano, ma l’italiano è utilizzato ufficialmente, oltre che in Italia, anche nella Repubblica di San Marino, nella Svizzera Italiana, in Vaticano e presso Il Sovrano Ordine Militare di Malta.
È crescente il suo utilizzo all’estero: è la quinta lingua più studiata nel mondo, dopo il dominante inglese, in gara con il francese, lo spagnolo, il tedesco e comunque prima di una lingua in forte ascesa come il cinese.
La Società Dante Alighieri dal 1889 alimenta l’amore e il culto per la civiltà italiana (come stabilì il suo fondatore, Giosuè Carducci) e organizza corsi d’italiano in 400 comitati sparsi nel mondo, affiancata dagli Istituti Italiani di Cultura che svolgono un’analoga grande quantità di corsi in varie nazioni. Anche il consorzio ICON (Italian Culture on the Net) associa 19 atenei italiani per promuovere e diffondere, in via telematica, la lingua, la cultura e l’immagine dell’Italia nel mondo. Cosa produce questo forte interesse per la lingua italiana?
Le motivazioni principali per apprendere l’italiano sono:
– il legame con l’arte e la cultura (ai vertici della civiltà occidentale),
– le esigenze dettate dal settore turistico,
– il clima positivo che circonda l’enogastronomia italiana,
– la spinta dei discendenti degli italiani emigrati all’estero,
– le prospettive occupazionali per gli immigrati,
– il valore dell’italiano nel mondo della musica classica. In tutti gli spariti del mondo, il tempo di esecuzione è indicato in italiano, accanto alla cifra dei battiti per minuto del metronomo (Allegro moderato, 112/124 bpm, oppure Vivacissimo, 140/150 bpm). I cantanti lirici fanno a gara per studiare la lingua madre del bel canto.
Soprattutto in certe aree, come la penisola balcanica e l’Africa magrebina, la domanda di italiano è fortissima. Si pensi alla capillare opera d’italianizzazione linguistica svolta dalla nostra televisione in Albania, agli oltre 50.000 iscritti ai corsi d’italiano nelle scuole della Tunisia, alle decine di migliaia di persone che parlano la nostra lingua in Croazia. Infine un ruolo fondamentale per la sua diffusione è dato dalla ramificazione della chiesa cattolica. Anche gli ultimi tre papi, un polacco, un tedesco e un argentino, hanno scelto di usare abitualmente l’italiano nei loro discorsi pubblici.
L’uso della lingua
Se però analizziamo l’impiego dell’italiano nel suo normale utilizzo quotidiano, dobbiamo notare un progressivo stravolgimento, nello scritto e nel parlato. Primo esempio: una ragazza manda a un suo amichetto un SMS. Non sorprenderà che le parole siano storpiate (tvtb xkè 6 1 mito) secondo l’uso dei messaggini; ci sorprenderemmo del contrario, perché la necessità di ridurre le battute per risparmiare tempo e denaro è comprensibile. Secondo esempio: un urologo, in un convegno medico, parla di necessità di elevata minzione, mentre un’ex miss Italia, in uno spot pubblicitario, parla della stessa cosa dicendo «Che fa tanta plinplin». Anche qui nessuna sorpresa. Diciamo quindi che è valido l’assioma: è corretto che il linguaggio sia utilizzato in modo coerente con il contesto nel quale avviene la comunicazione e, soprattutto, che sia in linea con il medium utilizzato.
A fronte di questa considerazione, scaturiscono però due riflessioni. Ecco la prima: molte volte questo assioma viene disatteso e l’uso del linguaggio è incoerente con il mezzo usato. Gli esempi sono tanti. Nel testo di una tesi universitaria (vero è che si trattava di una bozza non definitiva) vi era una certa quantità di cmq al posto di comunque e di xkè al posto di perché. In moltissimi blog, nei forum e nelle mail, l’uso dello stile messaggino, soprattutto tra i giovani, è diffusissimo. Alcuni linguisti sostengono che dovremo abituarci a queste licenze senza gridare allo scandalo, poiché ogni lingua si aggiorna in continuazione. Ma è possibile individuare un limite oltre il quale la lingua utilizzata diventa inaccettabile?
Afferma Luca Serianni, storico della lingua, che «è drammatica la distanza tra i licei del Nord-Est e gli istituti professionali del Mezzogiorno».
Ad esempio, parole come esimere, desumere, facezia, deflagrante, propedeutico, risultano incomprensibili, secondo una ricerca recente, a una gran parte di liceali. Vero è che l’italiano non è una lingua del tutto uniforme. Il linguista Gaetano Berruto ha distinto per esempio nove varietà d’italiano:
– italiano normalizzato letterario, detto standard. E’ quello descritto dai manuali di grammatica ed è proprio di chi ha studiato dizione, dei relatori e degli attori.
– italiano neo-standard che accoglie forme grammaticali più vicine al parlato.
– italiano parlato colloquiale
– italiano regionale popolare
– italiano informale trascurato
– italiano gergale
– italiano formale aulico
– italiano tecnico-scientifico
– italiano burocratico
Secondo un’indagine ISTAT le persone che parlano, con gli estranei, solo o prevalentemente italiano sono stimate il 72,8 %, mentre il dato scende al 45,5 % per l’uso dell’italiano in famiglia.
L’avvento della rete, già da diversi anni, ha dato il via a una potente rivoluzione con risultati sia positivi, sia negativi. È indubbio che è positiva, o per lo meno molto facilitante, la facilità di accesso alle fonti culturali: la si può utilizzare per controllare un dato, per apprendere un nome, per studiare un testo, per raggiungere con immediatezza, a costi irrisori, migliaia di persone, ecc. Ma, come si è visto, sono fortemente negativi l’impoverimento della lingua e il precario controllo dell’esattezza dei dati.
Inoltre la deprecabile abitudine di mascherarsi dietro l’anonimato di un alias, unita alla maleducazione degli utilizzatori, stanno rendendo la rete un grande impoveritore sia della lingua sia dello stile di relazione. Basta leggere l’elenco dei commenti che appaiono sotto ai video presenti in Internet per rendersene conto. Come se non
bastasse, nel grande calderone linguistico si mischiano abitudini gergali, dialettali e, in linea generale, scarsissimo rispetto per la comprensione dei messaggi.
La tradizionale formula che recitava «la comunicazione si misura all’arrivo» è morta. Ormai conta solo ostentare una cultura tecnica di facciata. Ecco la risposta che il direttore di una rivista specializzata del settore informatico, PC Professionale, ha dato a un lettore che chiedeva chiarimenti sul processo di autenticazione dei messaggi informatici. Il testo, che aveva lo scopo di chiarire tutto, era questo:
“Il processo è anche soggetto a un buffer overflow, perché quando l’administrator si connette al firewall, avviene un handshake per stabilire una sessione cifrata. Il quarto pacchetto dell’ handshake contiene 4 byte; non esistendo lato firewall un controllo di lunghezza dei dati ricevuti, per l’attaccante è possibile costruire una sequenza di pacchetti in modo tale da provocare un overflow dello stack”.
Per qualcuno è arabo puro, per gli informatici è un testo chiarissimo.
È vero che il linguaggio si aggiorna, ma a volte lo stridore è dato dal suo contrario, dove è continuo l’uso di forme desuete (nella prosa di tipo legale e nel burocratese) piene zeppe di il suddetto, testé, lo scrivente, all’uopo, quantunque, a tergo, in calce, siffatto.
Abbiamo anche letto una formula di saluto nelle lettere di un noto legale, davvero buffa: «Prono negli ossequi, umilmente vostro…»
Anche le leggi sono un capolavoro d’inutile complicazione:
«Qualora dal controllo dovesse emergere la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici conseguiti sulla base della dichiarazione non veritiera, fermo restando quanto previsto dall’art. 26 della LQ 04.01.68, n. 15, in materia di sanzioni penali».
Pensate quanto sarebbe stato più semplice farsi capire scrivendo:
«Chi rilascia una dichiarazione falsa perde i benefici descritti e subisce sanzioni penali (Articolo 26, legge n.15 del 4 gennaio 1968)».
Una curiosa dizione è poi quella che appare su tutti i segnali delle zone a traffico limitato, dove le due scritte VARCO ATTIVO o VARCO NON ATTIVO sono, di fatto, espresse al contrario. Per meglio chiarire: varco significa apertura, come ad esempio una porta. Se la porta è aperta si può passare, se è chiusa no. Si dovrebbe quindi dire, per un varco chiuso: VARCO NON ATTIVO. Invece è scritto l’opposto: VARCO ATTIVO. Sappiamo che, in realtà, vuole dire che è attivo (o non attivo) il sistema di rilevazione automatica delle targhe a mezzo di telecamere. Ma aumenta la confusione.
Gli esempi non finiscono mai: un altro dramma di questo sconvolgimento della lingua sono i termini inglesi ormai entrati prepotentemente nel linguaggio quotidiano. Abbiamo sentito due giovani manager scambiarsi questa telefonata: «Non ho implementato il project che mi hai postato perché non matchava con il format del Quarter e non era schedulabile; l’ho downlodato ma non ho potuto briffare nessuno perché devo fowardare il file al CEO, asap, e poi inputtare tutto. Domani fatti pickuppare alle 7:00».
D’altro canto, vi sono alcuni casi in cui una traduzione letterale sarebbe oggettivamente risibile: sostituire la frase «Cliccare il mouse» con «Pigiare il topo» è oggi improponibile. In qualche caso, ci dobbiamo arrendere: ha vinto l’itangliano.
Altro punto dolente è la punteggiatura che, per molti, è diventata un’opinione. Ecco gli effetti di una virgola spostata. «Leggere, tanto per leggere» non è la stessa cosa di «Leggere tanto, per leggere».
Così come «Sono vivo e vegeto» non è la stessa cosa di «Sono vivo, e vegeto».
Questo ricorda l’equivoca predizione della Sibilla Cumana a Enea (che, com’è noto, cambia interpretazione a seconda di come viene posta la virgola)…
«Ibis redibis non morietur in bello» potrebbe infatti voler dire:
«Ibis, redibis, non morietur in bello» (Andrai, tornerai, non morirai in guerra), ma potrebbe anche essere «Ibis, redibis non, morietur in bello» (Andrai, non tornerai, morirai in guerra).
Anche l’apostrofo può cambiare del tutto il significato di una frase, come nel celebre motto «Una signora che s’offre, s’ignora che soffre».
Vi è da chiedersi se tutti riescano a star dietro a questi sconvolgimenti linguistici.
Tullio De Mauro ricordava che gli italiani usano per comunicare, in media, 15.641 parole, delle quali le più diffuse sono 6.500. Se teniamo presente che un linguaggio specialistico utilizza circa 65.000 vocaboli, quello zero di differenza tra le due cifre certamente qualche problema lo crea. La nostra lingua, unica come grazia e ampiezza, meriterebbe una maggiore attenzione al suo uso.