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Jazz Ribelle! Festa di tutto il Jazz possibile.

Un festival a sostegno della ribellione alla decadenza culturale italiana. La scena jazzistica romana si unisce nel R-esistenza Jazz Collective e organizza la prima Festa di tutto il Jazz possibile.

 “Quando l’ingiustizia diventa legge, la R-esistenza diventa dovere”. La citazione a Brecht svela  le intenzioni del neofita collettivo R-esistenza Jazz Collective che in un mese è riuscito a portare 250 musicisti sui due palchi della prima Festa di tutto il jazz possibile, rassegna che si è conclusa il 17 settembre, con tre giorni dedicati alla lotta al degrado culturale in cui versa Roma.

“Oltre che un festival, credo sia più un punto d’unione, un modo per condividere il disagio dell’attuale condizione culturale, un luogo dove i musicisti e il relativo ambiente possano confrontarsi, dandosi forza nell’esprimere, anche suonando, le cose che non vanno bene”.

Gli occhi di Javier Girotto non lasciano molto spazio alle remore. Penetrano come la spada della crisi che ci lacera ogni giorno. E’ ben deciso sul da farsi: “Protestare!”.

“I politici stanno massacrando la cultura gestendo male la situazione – continua – Uno dei tanti errori dell’amministrazione è stato quello di impedire la programmazione estiva della Casa del Jazz durante la Festa dell’Unità capitolina. Siamo in uno stato di degrado, e in qualche modo, trovarsi qui oggi, insieme, serve a dire questo”.

Poche ore prima di incontrarlo sotto il palco dell’Eutropia, che ha ospitato questa prima “Festa di tutto il jazz possibile”, il noto musicista argentino stava dando voce al suo sassofono puntandolo in alto, come se volesse, con quella resistenza alla forza di gravità, enfatizzare ciò che m’avrebbe detto poi: “L’importante è fare”.

“Purtroppo, non ho potuto assistere alle varie conferenze che si sono susseguite durante questa tre giorni di jazz, ma so che gli argomenti portati in ‘cattedra’ sono condivisi. E’ ora che l’ambiente dei musicisti faccia rete e protesti, perché non è vero che ‘con la cultura non si mangia’, anzi, la cultura è forse l’unico buon mezzo per far rivivere la città”.

Parla di Roma, ma anche dell’Italia e quando gli chiedo se questa nostra condizione disagiante sia comune anche al resto del mondo, risponde: “Avviene più lievemente fuori dall’Italia, con la differenza che almeno loro la cultura non l’aggrediscono ma la rispettano. Il problema della carenza di spazi dove suonare, sia a Roma che in tutta la penisola, è dovuto non solo alla mancanza di fondi o agli organizzatori, ma anche a un sistema come la Siae che aggredisce, non tutela noi artisti, e si fa pagare l’ira di Dio da locali che cercano di vivere con quel poco incasso che riescono a fare”. Poi aggiunge, “un musicista cerca di trasmettere felicità suonando, e vedere quest’aria di depressione per questi problemi non è affatto bello. Mi dispiace per i colleghi che hanno meno possibilità e, soprattutto, mi dispiace per i giovani talenti che non hanno tanti spazi per esprimere la loro arte”.

javier girotto

Musicisti provenienti da formazioni storiche, jazzisti conosciuti sulla scena nazionale e internazionale e studenti delle scuole di musica, hanno “protestato” insieme durante i tre giorni del festival, e partecipato attivamente al confronto con “tutte le sigle storiche e indipendenti del jazz romano: operatori culturali, associazioni culturali, scuole di musica, jazz club, etichette indipendenti, MIDJ (Associazione Nazionale Musicisti Jazz), stazioni radio, giornalisti e blogger di settore”.

“Penso che la manifestazione sia stata molto importante per noi tutti – sottolinea il M° Massimo Nunzi, vincitore del premio Miglior arrangiatore dell’anno decretato dalla rivista Jazzit – MIDJ, capitanato dalla presidente Ada Montellanico, ha portato alla luce le vere difficoltà auspicabilmente affrontabili con un superamento delle divisioni interne e con la collaborazione. Ma sono anche emerse una rabbia e una decisa presa di posizione contro alcuni personaggi del jazz italico che, secondo alcuni dei partecipanti, ‘suonano sempre e solo loro’. Trovo utopico che si possa creare una class action contro i grandi nomi del jazz. Nulla, per un artista può essere garantito e i valori di mercato, oggi, contano più che mai. Serve il talento ma anche la novità. Suonare bene non basta più, ci sono migliaia di ottimi musicisti.”.

“L’Orchestra Operaia (che prende spunto dal prototipo americano dell’orchestra cooperativa della grande crisi del ’29), è un esempio pratico del mio ‘dire’ – conclude – Formata da alcuni fuoriclasse della vecchia e nuova scena italiana, l’Orchestra serve a suonare ad alti livelli e a offrire una possibilità concreta per i giovani compositori che non trovano un supporto per realizzare i loro progetti. Io e i miei quattro ‘Lone Arrangers’ che mi affiancano nella direzione, scriviamo per dare un senso al talento e alla dignità del compositore e dell’arrangiatore, ma anche dell’orchestrale, in un contesto di collaborazione e condivisione del bene comune: la musica”.

Per sei mesi, tutti i lunedì, sono stati sul pezzo e ora hanno più di 150 arrangiamenti. Sono tutti artisti competenti e noti alla scena jazz. Tra questi, c’è Pier Paolo Ferroni, il batterista mitragliatore che vanta collaborazioni con alcuni dei migliori musicisti contemporanei. E, anche lui, è fermo nel sostenere l’abbattimento dell’individualismo asettico.

“Oggi, qui, è successa una cosa incredibile – spiega – Un proprietario di un locale è stato intervistato da un altro locale che ha una radio, e da questa intervista è nata una collaborazione tra i due che hanno, poi, coinvolto un altro locale. Mai avrei immaginato avrebbero potuto lavorare insieme, proprio come facciamo noi musicisti sul palco”.

“Abbiamo sbagliato con l’individualismo – afferma – Ho cominciato a pensare a correre ai ripari da solo, ma da soli non si va da nessuna parte. Se non sei in un’equipe di persone, come ero con Frankie Hi Energy, con cui avevo una produzione a tutelarmi, hai sì un grande successo la sera del concerto, ma il giorno dopo non lo sa nessuno. Nessuno lo scrive, gli appassionati ti vengono a vedere, ma per la signora del pianerottolo non sei nessuno. Qui, hai sentito, ci sono musicisti di ogni genere, tutti bravissimi. Ecco, dove sono durante l’anno? Non ci sono più neanche i programmi tv. Nessuno si interessa realmente alla musica vera”.

“Mi oppongo all’affermazione di John McLaughlin secondo cui ‘non c’è più nessuna novità nel mondo’– prosegue la mente ritmica dell’Organ Trio, la band creata per “non farsi trovare alla sprovvista” quando il chitarrista inglese confermerà l’invito a partecipare a un suo nuovo progetto – Io ho scoperto che ci sono tante novità in giro grazie ad altri musicisti che mi hanno segnalato nuove formazioni e progetti. Tra questi, BAM, Black American Music, un nuovo jazz conosciuto tramite Fabio Morgera, un trombettista straordinario che insegna e lavora a New York, venuto ospite con l’Operaria. Ecco, vorrei scrivere a John che non è vero che non accade più niente, ma poi finisce che non mi chiama più”.

La futura collaborazione con John McLaughlin,  il chitarrista inglese che aveva partecipato, assieme a Billy Cobham, alle registrazioni di Bithces Brew e In a silent way di Miles Davis, è arrivata dopo la pubblicazione di un suo video in play along in cui suona due pezzi difficilissimi da 15 minuti l’uno.

In Inghilterra e in America c’è ancora rispetto per l’arte dei suoni, tant’è lo stupore manifestato dallo storico sassofonista e cantante Napoleon Murphy, pietra miliare della miglior formazione di Frank Zappa, che ha chiesto a Pier Paolo Ferroni “cosa succede in Italia? Perché non si lavora? Perché non si suona?”.

Eviteremmo una brutta figuraccia, se solo avessimo una dignitosa risposta in controbattuta.

 

Federica Tazza

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