ECM, acronimo di Editions of Contemporary Music è un brand iconico per gli appassionati di musica come pochi altri possono rappresentare.
La label immaginata e creata alla fine degli anni ’60 da Manfred Eicher continua immutata la sua naturale evoluzione ai confini delle terre sonore finora esplorate, con autorevolezza e senza necessità di dimostrare il suo valore. Non è un caso che la ECM sia tra le poche etichette che non hanno firmato alcun accordo con le piattaforme di streaming. A dimostrazione del fatto che oggi possedere, materialmente, nella propria collezione un vinile o un cd ECM significa apprezzarne il design studiato, l’artwork, il booklet, l’aspetto estetico e quello contenutistico, entrambi improntati a una filosofia di ricerca musicale.
Impossibile pensare di estrapolare singole tracce dagli album prodotti dalla ECM per farne improbabili playlist, tale è il loro valore autoriale da apprezzare come opera nella sua integrità minimalista.
Sarebbe inutilmente enciclopedico e riduttivo fare l’elenco o citare soltanto i più importanti autori e musicisti che hanno reso indispensabile il catalogo ECM. Di sicuro per tutti coloro che si avvicinano alla musica con curiosità, senza preconcetti e con voglia di esplorare (e tra questi in particolare gli appassionati di Jazz) è quasi impossibile prescindere da dischi seminali di tale levatura e spessore artistico e che hanno tracciato percorsi e contaminazioni nel mare magnum contemporaneo.
Nel versante jazzistico dell’orografia ECM trovano infatti spazio solisti e sideman capaci di creare uno stile e un mood personale, spesso unico, non limitandosi soltanto a interpretare bensì ad anticipare.
John Abercrombie era tra questi.
Il chitarrista e compositore newyorkese, spentosi pochi giorni fa all’età di 72 anni, aveva quella luccicanza che appartiene soltanto ai grandi del jazz, alle menti intriganti e seducenti, alle idee che non sentono il bisogno di maestria tecnica da esibire per evolversi ma soltanto di talento che deve trovare il momento e lo spazio ideale per esprimersi in tutto il suo brillante potenziale.
Il rimando con i massimi esponenti del cool jazz quali Miles Davis, il sassofonista Lee Konitz e il pianista Bill Evans è del tutto spontaneo. Dotato di una tecnica acquisita sin dall’età di 14 anni (e affinata nelle scuole di musica più prestigiose quale il Berkley College di Boston), John Abercrombie è riconosciuto dalla critica internazionale tra gli interpreti più autorevoli di un jazz bianco autenticamente cross-border, caratterizzato per tutta la sua carriera, lunga oltre quarant’anni, da una libertà di espressione totalmente scevra da ogni influenza.
La rilevanza delle sei corde nell’evoluzione del jazz non può prescindere, per tale motivo, dalle vertiginose e sfrontate volute acustiche che Abercrombie ha saputo donare al suo strumento. Ha dimostrato, sin dall’inizio, una capacità di saper governare tanto le angolature spigolose quanto gli oceani più profondi della chitarra con una naturale consapevolezza capace di conferire eleganza e virtuosismo privo di orpelli tanto alla dimensione elettrica quanto a quella acustica.
Nella seconda metà degli anni ’60, in attesa di finire gli studi a Boston, conosce Randy e Michael Brecker, i quali decidono di ingaggiarlo per il loro progetto jazz-rock, la “superband” nota con il nome Dreams.
Negli stessi anni apprende velocemente la lezione ritmica unendosi ai gruppi dei batteristi Chico Hamilton e Billy Cobham; in particolare, con quest’ultimo e la sua band Spectrum, John si afferma sulla scena captando l’attenzione dell’altro grande batterista Jack DeJohnette. Dalla collaborazione tra i due nasce il primo album solista di Abercrombie, Timeless, con la partecipazione del tastierista Jan Hammer. Un album ancora oggi considerato una pietra miliare.
Nell’arco della sua carriera, durata oltre quarant’anni, ha collaborato in varie occasioni con il pianista Marc Copland ma la formazione con la quale riusciva a esprimersi al meglio era il quartetto, accompagnato oltre che da Copland, dal batterista Joey Baron e dal sassofonista Drew Gress. Innumerevoli poi le collaborazioni e i progetti all’attivo con diverse formazioni, come leader o come sideman, con artisti del calibro di Charles Lloyd, Gato Barbieri, Jan Garbarek, Dave Liebman, Joe Lovano, Enrico Rava, John Surman, solo per citarne alcuni.
Tra i lavori più apprezzati non possono essere trascurati gli album realizzati con il trio Gateway, insieme a Dave Holland e DeJohnette. Chitarristi jazz di caratura internazionale ancora in attività quali John McLaughlin e Ralph Towner (con il quale Abercrombie ha dato vita a un duo molto ispirato) riconoscono oggi, attraverso la loro musica, il giusto tributo allo stile eclettico e virtuoso di Abercrombie, tanto efficace e dirompente nell’ascolto quanto under statement nella presenza.
Creativo, dotato di fantasia e inventiva, imprevedibile per i continui cambi di tempo e di registro che hanno reso celebri le sue performance live, Abercrombie ha impresso una direzione diversa alla fusion verso la fine degli anni ’70. Inoltre ha rielaborato e smussato le derive più ostiche del free jazz, bilanciando i contrasti tra suono elettrico e acustico, si è lasciato contagiare dalle tentazioni dell’elettronica e dei primi sintetizzatori, ha affermato uno stile lirico, cameristico, a tratti meditativo e denso di atmosfera ma senza tuttavia mai abdicare all’improvvisazione caratteristica del jazz.
Il suo ultimo album intitolato Up and Coming, pubblicato all’inizio dell’anno per ECM e realizzato con Marc Copland al pianoforte, Baron e Gress alla sezione ritmica, denota una personalità ormai matura, in grado di infondere nel suo sound un riflesso di tonalità più calde oltre a una rapidità e fluidità di fraseggio (data dalla padronanza della tecnica del fingerpicking).
«Vorrei che le persone mi ricordassero per aver stabilito un legame diretto con la storia della chitarra jazz, riuscendo a oltrepassare alcuni confini musicali», ha recentemente dichiarato John sul sito web della ECM.
Pur non essendoci bisogno di alcuna conferma, sarà sufficiente ascoltare la direzione che sta prendendo la musica di chitarristi quali Pat Metheny, Bill Frisell e John Scofield, per comprendere come l’influenza di John Abercrombie si sentirà ancora a lungo, ben oltre quei confini del jazz che ha osato sfidare.