Una splendida, imperdibile lezione di problem solving firmata dal Professor Cogno. Enjoy it.
Ci confrontiamo spesso, affermava Margaret Mead, con grandi opportunità camuffate da problemi. Questo significa che un processo di Problem Solving ci coinvolge in molti momenti della nostra giornata ed è curioso osservare che la prima cosa che di solito facciamo è un errore perché si cerca, sbagliando, di individuare subito la soluzione. E’ naturale ma scorretto: è meglio trasformare il problema (che si presenta spesso come un muro apparentemente invalicabile) in una scala, in cima alla quale possiamo scoprire soluzioni che a prima vista non appaiono con evidenza. La scala è la metafora di un corretto approccio ai problemi: in quel modo vediamo le cose da un punto di vista diverso.
La prima fase di questo processo è definita Problem Finding e si occupa dell’individuazione del problema. La prima avvertenza è quella di non classificare come “problema” ogni disagio, ansia, paura o condizione che siano al di fuori della norma; in sintesi, non si deve confondere il problema con una “condizione”.
Cosa s’intende per condizione? Facciamo degli esempi: di solito si ritiene che invecchiare, o avere una menomazione fisica, come la cecità, essere sotto la pioggia, o essere bloccati nel traffico siano “problemi”. No: sono condizioni, che creano dei problemi, ma non sono definibili tali. Prendiamo ad esempio l’invecchiamento. E’ inevitabile, ma è solo una condizione, non un problema. Prendiamo la cecità: è una forte menomazione, ma anche questa deve essere definita una condizione e non un problema. Per chiarire cosa è un davvero un problema o una condizione bisogna porsi la domanda: “Posso non invecchiare? Posso non essere cieco?” e via dicendo. Mentre allo stato di condizione la cosa non è affrontabile, allo stato di “problemi che ne derivano”, ogni sotto/problema è affrontabile con proprie e specifiche soluzioni, come più avanti si potrà vedere.
Occorre inoltre eliminare tutto ciò sul quale non è possibile intervenire:
• sul passato, perché è immodificabile. Bisogna analizzarlo, ma non intenderlo come un problema, perché non abbiamo facoltà di intervenire.
• sul fuori scala, quando il problema è troppo grande o troppo piccolo.
• sul fuori livello, quando il problema riguarda una gerarchia troppo alta per consentirci di intervenire.
• sul fuori campo, quando il problema affronta competenze troppo diverse dalle nostre.
Questo processo segna il passaggio dalla fase di Problem Finding alla fase del Problem Setting che consente, con successivi affinamenti, di scindere il macro-problema in tanti singoli problemi chiaramente definiti, ognuno dei quali potrà avere la sua soluzione.
Ad esempio, per i non vedenti, la lettura, è resa possibile dall’uso dell’alfabeto Braille; lo spostamento (segnalato da un bastone bianco) può essere risolto con un cane-guida, con un badante e con appositi percorsi segnaletici a rilievo. Quindi, per meglio chiarire, ciò che è una condizione deve essere scomposto in “sotto problemi derivati”. In questa fase non si devono “agitare” i problemi, che significa confonderne cause/effetti/colpe/contesto. Nell’atto di definire i problemi vanno evitate le domande aperte, in questo inutili, tipo: “Perché pensi di avere questo problema?” da sostituire con domande ad alternativa: “Questo fatto ti accade nel lavoro o nella vita privata? Questo problema è la prima volta che si presenta o è ricorrente?”.
Pertanto, l’abitudine di chiamare problema qualunque situazione che crei un disagio, richiede un’azione di setaccio che elimini ciò che è fuori dalla nostra portata. Solo dopo che il problema è stato circoscritto si può passare alla fase di una dettagliata analisi.
La fase di Problem Analysis ha lo scopo di chiarire i sintomi del problema e di definire gli obiettivi che devono essere presidiati. L’identificazione dell’obiettivo deve utilizzare la formula nota con l’acronimo SMART.
Secondo questa formula l’obiettivo deve essere:
• Specifico (riferito solo a quel problema);
• Misurabile (cosa si vuole esattamente ottenere);
• Accettabile (considerato ragionevole);
• Realistico (ambizioso ma non irrealizzabile);
• Tempizzato (entro quanto vogliamo ottenere il risultato).
Infine, ecco la fase del Problem Solving vero e proprio. E’ utile impostare il problema per iscritto, secondo questa sequenza:
“Dato che… (situazione problematica iniziale) e tenendo conto che… (aspetti specifici) come fare per…(fase di settaggio) ottenere che… (le soluzioni attese stabilite nell’obiettivo).
E’ bene ricordare, come affermava Jack Welch, CEO della General Electric, che sarebbe necessario affrontare un problema prima di esservi costretti. Anche il comune buon senso ci permette di capire che quanto prima identifichiamo un problema, tanto meglio possiamo risolverlo. E’ molto meglio farlo in momenti di tranquillità e non di agitazione. Ma un nostro istinto (sbagliato) ci porta a pensare che, sino a che il problema non è a tutti evidente, è inopportuno “perdere tempo” con una situazione che ancora non è problematica. Anche i vecchi proverbi ci portano fuori strada: si dice “Non svegliare che il can che dorme”. In realtà sarebbe buona politica monitorare continuamente le situazioni proprio nei momenti in cui possiamo ancora agire con sobrietà.
Le organizzazioni migliori si adoprano per individuare in tempo utile i problemi (a volte solo latenti, ma pronti a scoppiare) realizzando dei Focus Group e animando dei brainstorming. In questi casi è bene cercare di scoprire cosa è stato fatto in passato in casi analoghi, cosa ha funzionato o cosa no, se si trattava di errori di applicazioni o era sbagliata l’azione in se. Un errore consueto, da evitare, quando insorge un problema in una organizzazione, è quello di cercare chi è stato a sbagliare. La prima cosa che si fa è cercare il colpevole anziché chiedersi com’è accaduto. Ricordiamoci che dal come è facile risalire al perché.
Riepilogando: nella fase di Problem Finding (il Cosa succede) si tratta di rendersi conto di un disagio che può trasformarsi in problema, senza fare confusione tra problemi veri e “condizioni immodificabili”. Nella fase di Problem Setting (Cosa fare) si deve trasformare il disagio in un problema definito. Nella terza fase, quella della Problem Analysis (Chi-fa-cosa), si deve scomporre il principale in tanti problemi derivati. Infine, la quarta e ultima fase, è relativa al Problem Solving e al conseguente Decision Making (Come farlo) individuando le soluzioni in grado di eliminare le cause.
Devono poi essere prodotte almeno tre soluzioni tra le quali scegliere e mettere in atto la più efficace. Per concludere, ecco una tecnica, curiosa ma molto efficace, per escogitare nuove soluzioni all’insorgere dei problemi: il Game della Catastrofe. Si tratta di una tecnica di rovesciamento dello schema abituale: si sa bene che peggiorare le cose è più facile che migliorarle. Bene, ecco un’applicazione pratica di questo fatto: in un gruppo di lavoro a ogni partecipante è richiesto di indicare quante più situazioni catastrofiche per peggiorare la situazione aziendale, cioè, più chiaramente, come far fallire l’impresa il più rapidamente possibile. Dopo qualche attimo di sgomento (ognuno pensa abitualmente queste cose, ma lo negherebbe anche sotto tortura) le persone, accettando il gioco, si liberano di ogni inibizione culturale e indicano tutte le situazioni più catastrofiche pe produrre il fallimento. Alla fine si è quindi in possesso di una fantastica lista delle cose da NON fare, quindi esattamente l’elenco delle cose utili per evitare dei guai, come si voleva. Provare per credere.