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Leo, the king

Leo Di Caprio

Sono il re del mondo!” urla a braccia spalancate sull’oceano, il volto candido di un ingenuo bambino e il sorriso di chi si sente fortunato nonostante la mano sbagliata. Muore congelato, Jack, appoggiato ad una tavola di legno per salvare la sua amata dai ghiacci dell’Atlantico.

È il 1997, Titanic di James Cameron è la pellicola con il maggior numero di incassi della storia (superata 12 anni dopo solo da Avatar dello stesso Cameron) e il più alto numero di premi Oscar (insieme a Ben Hur e a Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del re), l’eroe romantico, che salva la morbida Kate Winslet dopo averla liberata dalle grinfie di un perfido Billy Zane e da una vita di noiose regole, è un giovanissimo Leonardo DiCaprio, 23 anni e una lunga carriera, iniziata con uno spot televisivo e uno show per bambini, alcune comparsate in serie tv e soap di successo e proseguita poi nel cinema accanto ad attori di prima grandezza, come Robert De Niro, Meryl Streep, Johnny Depp.

Ha 20 anni quando riceva la sua prima nomination agli Academy Awards per l’interpretazione di Arnie in Buon compleanno Mr. Grape di Lasse Hallström. Arnie è un ragazzo speciale, si arrampica sugli alberi, sui tralicci, sui tetti, guarda dall’alto la vita degli altri, immobile e stantia, in uno qualsiasi dei villaggi dello Iowa. Gracile, le spalle piccole, DiCaprio si muove ricurvo, costringendo il proprio corpo a lunghe pose innaturali, ogni muscolo è controllato, trasfigurato dalla rappresentazione di un ritardo mentale ed emotivo che diventa sul grande schermo incredibilmente reale. Non vincerà, al suo posto Tomme Lee Jones ottiene la statuetta come miglior attore non protagonista in Il Fuggitivo con Harrison Ford.

Poeta punk, adolescente disturbato, cowboy, personaggio shakespeariano, tossico, avventuriero, psicopatico, nel mezzo c’è un fiume di caratteri al limite, c’è un universo di corpi provati dal dolore e dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’ingordigia, un magazzino di maschere che raccontano il presente e i tempi lontani con la stessa medesima credibilità. Ci vuole forza, determinazione e coraggio per sopravvivere al proprio talento e alle proprie manie. Leo sopravvive al naufragio del Titanic, alle orde di fan, alla “Leomania”, ai soldi, alle aspettative di un pubblico sempre più esigente. Colleziona giacche, opere di Warhol e supermodelle dalla provenienza esotica, ma resiste all’omologazione, ai ruoli stereotipati del bello e dannato, alla mondanità, alla tracotanza delle dorate colline hollywoodiane, la stessa che Woody Allen con tagliente ironia fotografa nel suo Celebrity tra starlette succinte e fiumi di alcol. Mangia vegetariano, vota democratico, salva i panda.

Ci sono maestri che hanno fatto la storia del cinema americano, passata, presente e futura, nel suo curriculum, da Steve Spielberg a Clint Eastwood, da Sam Raimi a Christopher Nolan, da Quentin Tarantino a Sam Mendes, da Ridley Scott a Danny Boyle, fino a Martin Scorsese, con cui gira 5 film.

Quando nel 1992 Robert De Niro li presenta, Leo resta in silenzio, non gli stringe la mano, non lo ringrazia nemmeno per i complimenti, “continua così”, gli dice Scorsese, dandogli una pacca sulle spalle. Lui resta lì impietrito. 10 anni dopo, però, si ritrovano insieme per Gangs of New York, iniziando un sodalizio fortunato per entrambi, un connubio perfetto di storie folli e nevrosi umane. “Continua così” aveva detto a un ragazzino appena diciottenne dal nome troppo italiano che anni prima il suo agente voleva cambiare in Lenny Williams.

Continuano insieme in The Aviator, biografia del magnate Howard Hughes, in The Departed, in Shutter Island e nell’ultimo The Wolf of Wall Street, storia vera del broker newyorkese Jordan Belfort. Successi di pubblico e di critica che fanno fioccare premi e riconoscimenti, ma nessun Oscar. Nel 2005, la biografia di Ray Charles vince su quella di Hughes, Jamie Foxx porta a casa il premio come migliore interpretazione maschile, con tanti saluti a DiCaprio, che resta seduto e applaude.

Una maledizione che si ripete due anni dopo per Blood Diamond di Ridley Scott, l’Academy gli preferisce, infatti, Forest Whitaker ne L’ultimo re di Scozia. Applausi e sorrisi a mezza bocca.

La vittoria di Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club è, invece, storia recente, diventata virale e oggetto di straordinarie gag, anche grazie all’irriverenza del popolo dei social. “Alright, Alright, Alright”, avrebbe sussurrato con accento texano il caro Matt e forse la notte del 2 marzo lo ha fatto davvero prima di salire sul palco del Dolby Theatre.

Leonardo DiCaprio è sempre stato un attore superbo, lo era prima ancora di diventarlo. Un genio del grande schermo, forse per questo ancora dentro la pancia di sua madre diede un calcio appena lei si trovò di fronte ad un quadro di Da Vinci. Un talento nell’essere chiunque, ovunque, indossando con disinvoltura i panni di un agorafobico, di un marito in crisi, di un broker in delirio di onnipotenza, ridando luce a personaggi della letteratura e della storia, come Arthur Rimbaud, Jay Gatsby, J. Edgar Hoover. Lui è lì, sempre perfettamente a suo agio nel raccontare con ogni fibra del suo corpo, il delirio, la perdizione, l’ostinazione.

La sua recitazione nervosa, totale, ricorda quella di Robert De Niro nei primi film di Scorsese, da Mean Street a Taxi Driver e Toro Scatenato. Certo erano altri tempi e l’Academy riconobbe subito il talento di De Niro premiandolo nel 1975 per Il padrino – parte II e cinque anni dopo per Toro scatenato. Piuttosto il destino di DiCaprio è simile a quello di Al Pacino, una carriera incredibile in un’epoca di rivoluzioni sociali e cinematografiche e solo un Oscar per Profumo di donna nel 1993, all’ottava nomination, e a quello dello stesso Scorsese che Hollywood non deve amare particolarmente, se si scordò di lui per Taxi Driver, consegnandogli la statuetta solo nel 2007 per The Departed. Siete sicuri? Non è che vi siete sbagliati?” chiese ironicamente quando ritirò il premio.

Ecco, se è vero che la storia si ripete, anche per Leo arriverà la vittoria, forse quando avrà sessant’anni, forse per un film brutto, uno di quelli per cui non vale la pena spendere i soldi del biglietto. Sorriderà, ringrazierà tutti e maledirà  tutti i  seimila membri dell’Academy per i capelli grigi e le rughe. Sarà un’interpretazione perfetta, come sempre, ma non sarà la migliore. Per quella, siamo certi, non ci sarà nessun zio Oscar. Al massimo una fetta di pizza e una pacca sulla spalla.

 

Chiara Ribaldo | Bake Agency

 

 

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