Sarebbe più elegante intitolare questo editoriale “la derisione” ma sarebbe meno efficace ed anche meno esatto. Deridere, infatti, non ha lo stesso significato di sfottere, perché con questo termine (di origine piuttosto volgare) s’intende “prendere in giro per scherzo”, quindi deridere in modo non offensivo.
Ho anni di esperienza nelle indagini di clima aziendale che mi hanno abituato a questo brutto vezzo: un esperto collega, ai primi anni della mia attività in questo settore, mi aveva confidato un suo segreto. Prima di dare avvio alle interviste, ai focus group, alla redazione di questionari (quindi a tutto l’armamentario che una indagine di clima prevede) lui attendeva l’ora dell’intervallo e si infilava, in incognito, tra i gruppi di collaboratori che prendevano il caffè.
Mi confessò che da questa pratica traeva un numero di informazioni sul livello e sul tipo di relazione interpersonale che intercorrevano tra i collaboratori di quella struttura molto più svelante di quanto riuscisse ad apprendere con gli strumenti dialogici classici.
Più il livello dello sfottò era elevato, più era di fatto precaria la situazione relazionale.
Infatti, deridere, sfottere, prendere in giro (o scherzare pesantemente anche su questioni personali delicate) altro non è che un “portare a galla” un clima pesante, spesso frutto di una gestione verticistica autoritaria, soffocante.
Inizialmente io obiettavo, a questo mio collega, che si trattava comunque di battute sì, cattive, ma in fondo bonarie, fatte allo scopo di alleggerire la situazione in un momento di libertà, com’era prendere il caffè con i colleghi. Ma lui replicava con un esempio chiarificatore: quando tu ti trovi in un momento di gioia, di piacevole relax con la tua partner, magari dopo aver fatto l’amore in modo appagante, ti verrebbe mai in mente di sfotterla?
Lo sfottò, lui sosteneva, era sempre un sintomo di libertà repressa, di necessità di rivalsa, di una forma depressiva che trovava sfogo nello scherzo, essendo questo il solo mezzo socialmente consentito per sbollire un po’ la cattiveria che covava all’interno dei cuori di quegli poco felici lavoratori.
Fatta una maggiore esperienza gli dovetti dare ragione: più il clima era teso e difficile, più lo sfottò era praticato in modo vigoroso, in particolar modo dagli uomini, poiché le donne avevano forme più sofisticate per sfogare la loro “cattiveria.”
Il massimo l’ho sempre raccolto negli ambienti della pubblica amministrazione, in particolare negli ambiti militari.
Il tutto nasce nella scuola, che è il primo ambito di contatto extra-familiare, anche se con diverse modalità.
Oggi, complice anche il fenomeno imperante nei social media, si arriva ben oltre allo sfottò: si dilaga nel bullismo e spesso nella violenza fisica e nel furto.
Ma lo sfottò al quale faccio riferimento non è bullismo, che purtroppo è una fase molto più avanzata di questo fenomeno, oggi praticato con una gamma di sfumature che spaziano dagli hater molto aggressivi a quelli semplicemente idioti.
Scherzare può essere divertente, ma richiede un rilevante senso del limite. Molti confondono la franchezza e la mancanza d’ipocrisia, che sono dei corretti valori, con la maleducazione e il celebre “bidone della spazzatura al posto del cuore”, come ebbe a definire un odiato arbitro il simpatico Buffon.
Basta una semplice osservazione: se abbiamo bisogno di sfogarci con gli altri (perché il vulcano che bolle al nostro interno è al limite dello scoppio) significa che viviamo piuttosto male.
I valori più significativi sono il rispetto per gli altri (e non solo per le persone, ma anche per l’ambiente) e la continua ricerca dell’armonia.
È così rasserenante avere un rapporto armonico con gli altri, così appagante che non ci vuole molto altro per vivere bene.
Un sorriso, quella semplice curva delle labbra che non costa nulla, aiuta moltissimo a risolvere tutto con grande semplicità.