Fotografo di fama internazionale, Guido Harari ha immortalato alcuni dei più grandi protagonisti della musica, della letteratura e dell’arte. In questa intervista, ci racconta il suo approccio alla fotografia, il rapporto con i soggetti ritratti e l’evoluzione del suo lavoro nel tempo. Un viaggio tra immagini, ricordi e riflessioni sul passato e sul presente della fotografia.
Nel 99% dei tuoi ritratti, i protagonisti ridono o fanno ridere… Qual è il segreto?
Il tempo di una fotografia è tempo di qualità da condividere. Chi lo vede come un mero “lavoro” professionale sbaglia di grosso. Forse sono riuscito, in molti casi, a far capire ai miei soggetti – celebri e non – che il mio trovarmi davanti a loro con una macchina fotografica nasce da una curiosità personale, da una passione autentica. Questo vale soprattutto per musicisti, scrittori, registi, artisti in generale, ma non solo.
Nelle tue foto si ritrovano il rigore, l’equilibrio e l’eleganza di Richard Avedon, con in più un tocco di neorealismo felliniano. Quali artisti consideri tuoi maestri?
Ti ringrazio, ma davvero la pensi così? Ho trovato ispirazione in fotografi come Art Kane, Arnold Newman, Bruce Davidson, Jim Marshall, ma anche in artisti eccentrici come Edmund Teske e Luis Gonzales Palma. Sono autori con una visione non di confezione, ma spesso di pura poesia.
Hai avuto il privilegio di ritrarre uomini e donne che hanno segnato la storia della musica, della letteratura e dell’arte. Alcuni, come l’indimenticabile Fabrizio De André, non ci sono più. Cosa provi quando incroci i loro sguardi nelle tue fotografie?
Mi sento fortunato ad aver trascorso del tempo con loro e ad aver cercato di assorbire il più possibile dal nostro incontro. In alcuni casi, la fotografia è stata un modo per salvare la memoria di figure chiave di un mondo e di una cultura ormai irripetibili. Se poi sono riuscito a tradurre questo in buone immagini, lo lascio giudicare agli altri.
Negli anni ’90 è cambiato qualcosa in te. Raccontaci cosa e perché.
Ho voluto liberarmi dell’etichetta di “fotografo musicale”. In Italia si tende a specializzarsi, ma questo può diventare una gabbia. Sono sempre stato un cane sciolto, con troppi mondi da esplorare e troppo poco tempo per farlo. Negli anni ’90, grazie a testate come Max, King, Moda, Sette, ho avuto l’opportunità di spaziare. Poi, però, ho perso interesse per le “celebrities” e per l’insopportabile mordi e fuggi della fotografia. Ho scoperto di poter fotografare senza macchina fotografica, realizzando libri di cui curavo ogni aspetto: editing, testi, grafica. È stata una scoperta senza ritorno.
Lou Reed ha detto di te: “Guido cattura nei suoi ritratti ciò che gli altri fotografi ignorano”. Cosa cerchi negli altri quando passano davanti al tuo obiettivo?
Cerco la persona dietro al personaggio. Fotografare, per me, non è collezionare trofei, ma creare un’occasione di conoscenza. In questo senso, probabilmente non sono neppure un fotografo, ma piuttosto un raconteur. Il mio libro Bestemmia su Pier Paolo Pasolini ne è un esempio: non ho potuto conoscerlo di persona, quindi mi sono “creato” un viaggio per approfondirlo, lavorando con sua nipote Graziella Chiarcossi su migliaia di documenti d’archivio.
La musica è il filo rosso della tua arte. Perché?
Da bambino, negli anni ’50, il rock e il pop mi hanno conquistato: da Chuck Berry a Elvis, dai Beatles ai Rolling Stones. Da adolescente ho pensato di combinare due passioni – musica e fotografia – in un unico progetto.
Quale canzone avresti voluto scrivere? E quale musica ascolti oggi?
Sono un ascoltatore onnivoro, sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Alla prima domanda non saprei rispondere.
La tua generazione è stata molto fortunata. C’è qualcosa che vorresti raccontare a questa generazione sulla musica che hai vissuto?
La mia generazione è cresciuta con la musica, che rappresentava ideali e sogni di un futuro migliore. Oggi, invece, la musica non rappresenta più nulla perché non c’è più nulla da rappresentare. Gli ideali si sono sgretolati. Basta leggere Bauman per capirlo. Possiamo raccontare il nostro passato senza nostalgia, ma con il rimpianto di quello che credevamo possibile e non è stato.
Se potessi vivere in un’altra epoca storica, quale fotografo del passato vorresti essere?
Basta fotografia. Mi sarebbe piaciuto essere un pittore come Francis Bacon, in un’epoca in cui c’erano ancora schemi da rompere. Oggi è il deserto.
In un’epoca in cui i cantanti si fanno i selfie invece dei ritratti, i social media sono più importanti dei fotografi?
Tutto è stato svuotato di significato. Le nuove tecnologie ci hanno espropriati dell’intelligenza, del pudore e soprattutto del nostro tempo libero. La connettività non è collettività.
Cosa consiglieresti a un giovane che oggi volesse diventare fotografo?
Capire cosa vuole esprimere con quel linguaggio, e se la fotografia sia davvero il mezzo adatto. Senza questa consapevolezza, si rischia di fare solo esercizio estetico fine a se stesso.