A maggio, reduce dai fasti del vernissage, in un articolo su Just Baked (“La Biennale 2017: quella delle grandi mani”) avevo citato anche la ciclopica mostra di Damien Hirst, che occupa per intero gli spazi prestigiosissimi di palazzo Grassi e Punta della Dogana fino al 3 dicembre, salvo proroghe: Treasures from the Wreck of the Unbelievable (Tesori dal relitto dell’Incredibile). Probabilmente la più estesa personale a Venezia di un artista contemporaneo.
“Professore, non può cavarsela con un accenno; noi l’abbiamo vista la mostra e siamo perplessi. Per riassumere: grande artista o grande pataccaro?”: questa la provocazione di una coppia di ex studenti.
Forse se lo chiede lo stesso Damien, ma una cosa è certa: in epoca di fake news e bufale, lui è il campione di post-verità d’arte. Ma andiamo per ordine, anche a beneficio di chi della mostra e del suo amato-odiato autore sa poco o nulla.
INVENTARSI UNA STORIA
E che questa storia sia affascinante, coinvolgente, spiazzante; che sia perfino doloroso non crederla vera!
La storia che s’inventa Hirst, cinquantaduenne inglese nato nell’effervescente città di Bristol, è di quelle che piacciono ai bambini e anche al bambino irriducibile che resta nascosto in ciascuno di noi: una storia che ha il gusto seducente di mito e di leggenda, di avventure di pirati e di corsari, di tesori sommersi, cercati per secoli e alla fine ritrovati. Come nelle belle favole.
È La storia di un liberto, Aulus Calidius Amotan, che non solo si è affrancato dalla sua condizione di schiavo ma accumula un patrimonio immenso di arte e di bellezza; tesoro poi naufragato con il vascello Απίστευτος (Incredibile) in fondo all’oceano, forse per una vendetta degli dei invidiosi. Succedeva alla fine del primo secolo dopo Cristo. E a lui Damien, probabile reincarnazione del liberto (mi sembra il minimo!), affrancatosi a sua volta dalla povertà e ora artista ricco e collezionista raffinato, è toccato il compito di recuperare quei tesori e offrirli alla fruizione dei suoi esterrefatti contemporanei. E lo fa con la perfezione formale di ogni reperto, con l’uso di materiali rari come la malachite, con la documentazione del recupero del tesoro: riprese subacquee spettacolari e una documentazione “scientifica”, fatta di disegni, modelli, reperti d’epoca affidati a uno stuolo di professionalissimi collaboratori.
UN VERO AUTENTICO TESORO FALSO
“Io non ho capito se è una collezione vera o un’accozzaglia di robe rifatte!” sta confidando un signore, al secondo piano di Palazzo Grassi, alla sua disorientata compagna che reagisce con un salomonico ma incerto: “Mezzo e mezzo”.
Alcune statue sono di dimensioni colossali: il Demone con palla che ti accoglie all’interno è alto più di diciotto metri; il palazzo sembra essergli stato costruito intorno. Il gigante non è di bronzo, come sembrerebbe a prima vista, ma di resina dipinta con un effetto bronzo straordinario: cinquanta pezzi assemblati da sapienti artigiani in quattro mesi di lavoro.
E poi sculture di ogni dimensione: budda, sfingi, serpenti, draghi, scimmie, mostri vari, icone votive, monete, gioielli, utensili, armi, teschi, monili. E, all’improvviso, in mezzo a questo inventario fantastico delle più diverse antichità, realizzato a volte in marmi pregiati, pietre rare, oro, sofisticate fusioni in metalli preziosi oppure con resine e nuovi materiali, appare anche… Pippo. Sì, Pippo più stralunato che mai, ricoperto di conchiglie come pure il tenerissimo Baloo rivestito di spugne e coralli dai colori delicati. Mentre un video ci documenta il recupero del mito disneyano per eccellenza: Topolino! Anche lui adeguatamente conchigliato.
E a questo punto, di fronte all’evidenza che si tratta di un vero autentico tesoro falso, c’è chi…
CHI S’INCAZZA, CHI S’INTENERISCE, CHI APPLAUDE, CHI…
Sì, di fronte a Pippo e Topolino recuperati dal fondo dell’oceano insieme al busto di un faraone o della bellissima dea babilonese Ishtar, e ricoperti delle stesse incrostazioni, è impossibile non prendere atto della colossale messa in scena.
Le reazioni sono varie e sorprendenti: chi s’incazza come un adulto credulone colto in fallo e la butta sull’ideologico (“in epoca di crisi, chi finanzia ‘ste boiate pazzesche?!?”), chi ride o s’intenerisce davanti a quel Baloo così sapientemente decorato di spugne e coralli, chi recita la parte dell’esperto d’arte contemporanea plaudendo all’artista che “interpreta lo spirito fraudolento e visionario insieme” dei nostri tempi, chi s’ammanta di cinismo sociologico: “se negli impegnati anni sessanta ammiravamo (e qualcuno comprava) merda d’artista, ora nell’era della superficialità e delle contaminazioni insensate ammiriamo (e qualcuno compra) costosissime raffinate patacche”.
Così il pubblico. E la critica? La critica ovviamente si divide e questo, aumentando la cassa di risonanza, non può che far felice il nostro Damien, al quale il mercato ha dato meno soddisfazioni negli ultimi anni: come saliranno meravigliosamente ora le quotazioni di ciascun pezzo! Insieme ai tesori dell’Incredibile, dal fondo dell’oceano risalirà, e vistosamente, anche la sua quotazione. “Hoc erat in votis!” avrebbe potuto commentato il liberto Amotan.
E sì, perché tutta questa, oggettivamente fantastica ed epica, messa in scena del recupero oceanico e la nobilitante collocazione veneziana sono destinate a supportate il successivo processo di vendita di ogni singolo pezzo. Le visite alle due mostre in “privata notturna”, o nei martedì di chiusura al pubblico, sono riservate ai grandi collezionisti che vanno a familiarizzare con l’oggetto, per loro raggiungibile, del desiderio.
E, inoltre, per quanto riguarda i possibili canali di vendita, basti ricordare che lo sponsor della mega galattica esposizione (5.000 mq!) è quel Francois Pinault che, oltre ad essere proprietario delle due prestigiose sedi veneziane, annovera nel suo vasto e variegato impero economico e finanziario anche la casa d’aste Christie’s.
“SOMEWHERE BETWEEN LIES AND TRUTH LIES THE TRUTH”
“Da qualche parte tra menzogne e verità sta la verità” è scritto all’ingresso di Punta della Dogana. È questa la risposta preventiva di Hirst, oltre la quale non ci sono altre sue dichiarazioni ufficiali, al coro di entusiasmi, perplessità e polemiche suscitate da questa sua faraonica personale, strategicamente presentata come evento collaterale della Biennale d’arte 2017.
Se Damien Hirst sia uno dei più significativi artisti a cavallo del secondo e terzo millennio, o addirittura il più significativo, lasciamo che siano i posteri a dirlo, quando la prospettiva storica consentirà un giudizio al di fuori dell’effetto alone del sistema industriale dell’arte e dei rumori di fondo degli interessi economici in ballo.
Ma sicuramente è un grandissimo marketer, un caso esemplare di personal branding, un esperto di comunicazione tanto avaro di parole e interviste quanto accorto regista dei flussi comunicativi che alimentano il suo mito.
ECCESSI E SAZIETÀ
Non posso certo negare che Hirst sia autore di spiazzanti percorsi creativi, presentati sempre in eventi perfettamente costruiti sotto il profilo del marketing e della comunicazione; eventi che alla fine sono il vero episodio artistico che travalica le stesse opere esposte, come in questa mostra veneziana.
Mostra esagerata: splendidamente secondo alcuni, grottescamente secondo altri. Esagerata e basta secondo me. I personaggi dei cartoon ripescati insieme alle divinità indù o egiziane fanno sorridere e ci proiettano in una prospettiva storica da futuro lontano, il busto del liberto con le fattezze di Hirst è un’ammiccante strizzata d’occhio, poi il gioco protratto finisce per stancare: e nel combattimento impossibile tra l’Idra greca e la dea Kalì più che l’aspetto epico ironico colgo un sincretismo dozzinale.
Esagerata, ma mostra da non perdere se possibile: la curatrice Elena Geuna ha fatto uno straordinario lavoro e tiene bordone da consumata (attrice) professionista alla post-verità di Hirst della quale, nelle interviste, sollecita una fruizione senza pregiudizi.
Se la creatività troppo succulenta, il rimbalzo continuo tra finzione e realtà, tra passato e futuro, tra evidenza del falso e attraente credibilità del verosimile, insomma se questo verissimo tesoro falso darà anche a voi un senso improvviso e molesto di sazietà, di sbornia da eccessi, non preoccupatevi. Uscite e volgete lo sguardo altrove: siete a Venezia, l’antidoto è nell’armonia intorno.
Io l’ho fatto, salendo sulla terrazza del Fondaco dei Tedeschi a Rialto: la vista sul Canal Grande immerge subito nella confortante prospettiva della bellezza consolidata, alla quale tornare ogni volta che se ne sente il bisogno.
ALLA FINE SPETTA A NOI
Sì, non ho mai amato Damien Hirst, ma ho sempre seguito con attenzione quello che fa. Lo reputo, anche e inevitabilmente, un perfetto prodotto del sistema industriale dell’arte e di quello della pubblicità con i quali ha vissuto in simbiosi: suo mentore, collezionista e gallerista è stato per molti anni Charles Saatchi che, con il fratello Maurice, ha costruito un impero pubblicitario ed è considerato un “reinventore” dell’arte e un creatore d’artisti. Sistema dell’arte che, a un certo punto, Damien è sembrato addirittura voler sfidare con la vendita diretta delle proprie opere; per poi tornare al meno rischioso rapporto di simbiosi.
Opere con le quali ha spesso riproposto in maniera spiazzante o addirittura brutale i temi più presenti ma anche più rimossi nell’immaginario collettivo, a cominciare dalla costanza della morte e della sofferenza nella nostra quotidianità: animali morti e spesso sezionati messi in formaldeide, la testa di vitello divorata dalle larve, il teschio umano rivestito di diamanti. Nella visione di Hirst c’è però anche un “be born again”: morire e rinascere, affondare e riemergere, perdere e ritrovare, plasmare contingenti raffinate menzogne per sollecitare l’individuazione di una diversa verità; come in questo colossale evento veneziano.
Alla fine, in questa mostra come nella vita, spetta a ciascuno di noi la responsabilità di decidere da cosa lasciarci sedurre, quale punto di vista accettare e a cosa voler credere.
Da questa soggettiva, diventa irrilevante che Hirst sia un grande artista o un magnifico pataccaro.