Matteo Tambussi, autore e musicista, ha da poco pubblicato Polyamorie, il suo nono album, via Calista Records.
L’album, realizzato a Berlino, racconta l’esperienza complessa e stratificata dell’amore filtrato attraverso le lenti sfocate della contemporaneità, dove le sfumature sono le regole e la musica è rifugio e allo stesso tempo algoritmo per provare a decodificare il prisma irregolare delle relazioni.
Polyamorie è un racconto a capitoli, da ascoltare con la stessa spontaneità con cui Matteo Tambussi l’ha scritto, come una confidenza tra amici, una chat curiosa, un corteggiamento discreto, un invito a salire a casa per bere un drink oppure semplicemente uno sguardo disincantato sulle relazioni liquide.
Ciao Matteo, benvenuto su Just Baked e grazie per aver aver accettato il nostro invito.
In questi giorni esce il tuo nuovo album, il nono della carriera, dal titolo Polyamorie.
Ci racconteresti qual è la genesi del progetto, qual è stata l’ispirazione e cosa ti ha spinto a declinare, in musica e parole, il tema, delicato ma quanto mai attuale, dei rapporti personali?
Fondamentalmente perché l’amore a Berlino genera lo stress di un qualsiasi full-time, e io ho voluto fare un disco per alleggerire almeno la mia situazione. Polyamorie è un disco nato verso la fine di Alphaville Homestudio Recordings #1 e prima di Zilina, che in quanto lo-fi aveva richiesto meno tempo di cottura. Da tempo sono interessato a fare uscire lavori in duo o in collettivo e stavolta ero curioso di restringere quel tipo di output musicale ad una tematica extra-musicale che giustificasse questo approccio collettivo.
La poliamoria in quei mesi era un topic frequente su alcune riviste, soprattutto a target femminile, e un concetto che ritornava spesso nella mia vita di tutti i giorni. Stavo lavorando a questi pezzi con alcuni amici musicisti, volevo che fosse un disco pluri-autobiografico, forse anche per correggere il tiro nel resoconto, liberandolo dalla mia limitata esperienza, che poteva essere male interpretata e presa troppo sul serio.
Volevo buttare in musica alcune pulsioni sessuali e meccanismi affettivi, ma volevo farlo in modo bilanciato, chiamando qualcun altro a raccontare le sue. In quei mesi avevo il lusso di avere le chiavi dei Klubhaus Studios di Berlino (uno studio sulla Spree, che ora non esiste più) e di una resident band, e volevo uscire con un lavoro che non fosse nè solista, nè band dalla identità di gang vs the world, ma un grosso pacifico cetaceo che sa di non avere predatori, e nuota miglia in lontananza emettendo trilli e succhiando plancton. Non so se rendo l’idea. In generale è stato un lavoro molto dilatato, quasi due anni, che sono contento di aver terminato.
Il nove ritorna anche nel numero delle canzoni che rappresentano anche i diversi punti di vista sulle relazioni tra due persone viste da molto vicino. Ascoltando i brani dell’album, la prima impressione è che Polyamorie sia il tuo lavoro più intimo e personale, ironico ma a tratti anche sofferto. Sei d’accordo con questa affermazione?
Mmmm… Ni. Ho scritto pezzi decisamente più sentiti in passato, soprattutto canzoni d’amore, che però col tempo hanno svelato un certo movente di auto-compiacenza nella melanconia. I pezzi di Polyamorie sono intellettualmente più sani, proprio perché sono il risultato di un bilanciamento di esperienze di persone diverse, ognuna con il suo lessico.
In questo senso, forse anche il songwriting è decisamente migliore. Alcuni sentiranno meno presa drammatica, meno pathos. In questo disco non ci sono escamotage, non c’è nè trucco, nè mimica, nè lirica. Non mi interessa al momento, e forse non sono più in grado di, impersonificare un concetto o un personaggio. La vita è già abbastanza un dimenarsi della spontaneità tra le maglie dei ruoli categorici. Pertanto sto cercando di ritagliarmi un ruolo nuovo in musica, un’immagine decentralizzata, trasparente con tutte le emotività. Credo che sia la cosa giusta se voglio avere un rapporto sano con questa professione.
Zilina era un concept album registrato in due settimane di permanenza in una piccola cittadina della Slovacchia dove sei entrato a diretto contatto con le persone del luogo assorbendo esperienze dal loro vissuto.
Per scrivere e registrare i brani che compongono Polyamorie hai adottato un metodo simile?
No, assolutamente; Zilina è stata una full immersion totale, anche un po’ in apnea, in un lavoro di scrittura e studio senza tregua. Polyamorie conta alcuni pezzi cronologicamente e geograficamente molto distanti tra loro. Non c’era l’intento di un disco dietro: lavoravo in team quando c’era una relazione artistica che rispondeva a questa caccia al tesoro tematica. Potrei definirlo un “best of” realizzato da un collettivo in maniera del tutto spontanea, in cui io ho occupato un ruolo di segretario.
Proprio come un rapporto poliamoroso, il tuo nuovo disco si presenta come un lavoro corale e consapevole, denso di collaborazioni di spessore: Rachel Sermanni, Brandon Miller, Milly Blue, Zeynep Gedizlioglu, GG, Ken Dolman e Afrodream.
Non sei nuovo a personalizzare i tuoi lavori con importanti featuring così come non è la prima volta che duetti con la splendida voce di Rachel. Raccontaci qualcosa di più di questi rapporti professionali ed artistici.
Eeeehhhh… Quel che è successo in Polyamorie resta in Polyamorie! Quel che ti posso dire è che mi ha reso molto felice che questi artisti si siano fidati di me e mi abbiano dedicato il meglio delle loro energie, alcuni, come GG, anche prendendosi un po’ in giro. Lei per esempio con me canta Punanus, uno scherzo funk un po’ estivo e sudato, a riguardo di un punto un po’ difficile da trovare, ma molto interessante, fra gli organi genitali e l’ano. Per l’anatomia occidentale si chiama Perineo, per lo yoga Mula. Questo punto si dovrebbe sviluppare con contrazioni mirate in maniera tale da controllare la libido e anche rafforzarne l’intensità quando liberata. Il nostro pezzo parla semplicemente della bellezza di cercare quel punto nel partner. Però mi sa che non ho risposto alla tua domanda, scusa.
Rachel è magnifica, gran lavoratrice… Un cesello del songwriting. Il pezzo che abbiamo scritto insieme, Moth, è l’unico che affronti il tema della morte, e di quel brivido che immaginiamo l’accompagni. Un pezzo sulla morte in un disco erotico non poteva mancare.
Le sonorità di Polyamorie confermano la tua naturale attitudine al songwriting che riesci a declinare con agilità tra ballad più intime e brani decisamente più trascinanti dalle atmosfere alternative rock senza disdegnare un utilizzo misurato dell’elettronica come in Moth, per me tra gli episodi più riusciti del disco, insieme a Vishnu e SFTU.
Parliamo degli arrangiamenti e di come il tuo stile è maturato nel corso degli anni fino ad arrivare a questo nuovo equilibrio.
In verità devo molto di quel trattamento al lavoro di Maurizio Borgna, che già aveva prodotto il mio primo EP solista Spiritual Slang. E’ suo il merito di aver saputo valorizzare con le giuste texture le take che gli portato. Abbiamo fatto parte del lavoro di post insieme nel suo appartamento a Berlino, per poi completarlo agli Andromeda Studios di Torino, quando lui si è ritrasferito in Italia. Per il songwriting anche lì, in un paio di casi si tratta di pezzi sui quali io ho apposto solo solo un lavoro editoriale. Vedi Vishnu, pezzo scritto da Luca Vergano degli Afrodream, Metrosong di Zeynep Gedizlioglu, in cui ho solo reinterpretato la scrittura originale aggiungendo il testo e trovandone una giusta rilegatura. In altri casi, come It’s Not, l’idea originale arrivava addirittura da un video messaggio di una mia ex.
Polyamorie è un disco di canzoni, come il precedente Zilina, anche questo realizzato parte in inglese e parte in italiano, come a voler evidenziare la tua vocazione internazionale, risultato di una lunga e continuata esperienza all’estero.
E’ una scelta ormai consolidata che hai condiviso con la tua etichetta per raggiungere una platea più ampia di pubblico?
Non direi esserci alcuna strategia dietro l’uso dell’inglese. Oramai le mie relazioni, intime e non, contano provenienze assai diverse. Scrivessi solo in italiano, escluderei tanti riferimenti e tanti amici. Al contrario forse, l’italiano mi riesce più difficile… per me è sempre un processo laborioso, quindi più da tavolino. Invidio profondamente i cantautori e il nuovo synthpop italiano, sbavo alla loro capacità di creare testi leggeri eppur significativi, magari anche rappresentativi di un momento effimero perché no. Tuttavia sono contento dei pezzi italiani di Polyamorie. Con questi nuovi testi ho ignorato la paura dei giudizi nella mia lingua e quindi mi sono buttato, cercando di dare senso al ridicolo che mi frulla in testa. Non sono un musicista opinion leader, nè influencer.
Imparerò a scrivere gli inni da arena quando la mia vita mi porterà gli ingredienti per farlo, per il momento posso tranquillamente ripulire la cache mentale, fumare una cannetta ed eliminare i fermi immagine immagazzinati nella mente, dando loro collocazione tematica all’interno di un pezzo. Lo trovo liberatorio.
Da alcuni anni il tuo quartier generale si trova a Berlino, la città dove hai realizzato cinque album e che torna ciclicamente nelle tue canzoni, come ad esempio in Metrosong, brano nel quale la ricordi come un luogo dove «i sogni si sciolgono in alcool…»
Com’è la Berlino nell’immaginario di Matteo e quanto può rappresentare ancora oggi un passaggio decisivo nella carriera di tanti giovani musicisti, deejay e produttori che dall’Italia ambiscono a trasferirsi nella capitale tedesca?
A Berlino si sta attualmente vivendo un secondo rinascimento post-wall dovuto all’incredibile push di developers, hackers e creativi coinvolti nello sviluppo del blockchain. È la capitale del crypto e della ri-definizione dei rapporti microeconomici e digitali tra individui, su base matematica. Credo non ci sia periodo migliore per decidere di andare a passare un po’ di tempo, studiarne l’ambiente ed il know-how per connetterci la propria realtà creativa.
Certo, c’è bisogno di un po’ di impegno mentale, ma l’ispirazione anche artistica generata da questa rivoluzione anarchica digitale è assolutamente liberatoria e pluriforme.
Io sono al momento coinvolto nella prima valuta in Ethereum su base locale, il BerlinCoin o BRLN appunto, un token designato apposta per dare alla comunità di creativi, designer e developer di Berlino la possibilità di valorizzare il loro network di lavoro. Copie digitali di Polyamorie sono già state comprate privatamente per 1 BRLN. Punto ad inserirlo presto su di uno store crypto creato apposta in questo senso, entro un paio di settimane e sempre per 1 BRLN.
Mi ha colpito particolarmente l’accostamento tra la musica elettronica e la dipendenza erotica, tema del brano che chiude l’album.
Una discesa in picchiata quella che racconti nella canzone, quasi un’involontaria assuefazione alle dipendenze indotte dal vivere in una città (Berlino?) che si autoalimentano in un circuito perverso, dal quale è difficile riuscire a risalire.
Oppure non è poi così male! Ma ovvio, certo, una vita passata a cercare conferme nel tocco tra persone è una vita che non raggiunge mai l’obiettivo, semplicemente perché ci vorrebbero tre vite a soddisfare tutte le curiosità, e questo senza contare le nuove generazioni che nel frattempo raggiungono la maggiore età. Ho fatto il calcolo e davvero è una lotta persa.
Scherzi a parte, l’accostamento di musica elettronica e erotomania mi è venuto un po’ così. Credo però che i suoni sintetizzati contribuiscano ad una visione della realtà più giocosa o virtuale. Quindi senza troppe conseguenze. Ma è pura licenza poetica, non vuol dire niente.
Berlino crea alcune spirali molto piacevoli, nascono interessi reciproci che non seguono le normali regole di immagine, di status o culturali che abbiamo in Italia, è un frullatore che ti mescola a tutto il resto. Per questo è molto difficile stare focalizzati sulla propria destinazione. La vita richiede molte energie, e per tenere su tutti questi aspetti con i relativi ritmi in molti abusano di sostanze. Ma non è l’unica scena. C’è anche gente molto pudica e perbene. Io parlo solo del mio spaccato di società.
Polyamorie esce per Calista Records, l’indie label alla quale sei legato ormai da anni.
Parlaci del rapporto con la tua etichetta e dei nuovi progetti in cantiere oltre ad anticiparci, se puoi, qualche data anche in Italia dove potremo ascoltarti dal vivo insieme alla tua band.
Con Calista i rapporti sono molto buoni. Hanno naturalmente un calibro ridotto rispetto altre etichette o agenzie stampa, ma sono buoni tiratori sulla gittata lunga. Sono fiducioso che questo disco avrà un ciclo vitale più lungo, e che quindi potremmo distribuire il lavoro con calma.
Dischi in lavorazione non ne ho, ma usciranno presto due dischi rock registrati in presa diretta in cui ho suonato come arrangiatore e chitarrista: un primo, il disco di debutto di Laura Guidi, ed un secondo, il disco nel cassetto di Mac, un mistery man che ha fatto la storia della velocità su quattro ruote, ma avrebbe sempre voluto fare il musicista. Racconterò presto di più. Sarò a Berlino questo autunno a registrare un’altro disco come session player e per fare un po’ di concerti. Per ora l’unico concerto è a Torino il 20 di Settembre, Magazzino sul Po.
Da Ottobre a Febbraio 2019 vivrò a Roma, dove mi occuperò di musica e Blockchain per un protocollo chiamato Livepeer. Ho bisogno di portare avanti questo aspetto più politico-economico, è un’esigenza mia e credo che i risultati in qualche anno andranno a beneficiare tante persone che fanno musica.
Ringraziamo Matteo Tambussi per il tempo che ci ha dedicato.
Grazie a te Fabrizio.