L’episodio non è sicuramente tra i più noti della storia della nostra Repubblica, ma nel 1969 l’isola (artificiale) delle Rose al largo di Rimini fu fatta saltare in aria con 75 chili di esplosivo su decisione del governo Rumor. Cosa la rendeva così temibile? In realtà era più di una semplice isola, una autoproclamata Repubblica delle Rose, il sogno utopico dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa. Uno dei casi che Graziano Graziani ha voluto raccogliere nel suo interessante Atlante delle Micronazioni (Quodlibet, pp. 384, € 16,00).
Cosa sono esattamente le micronazioni?
Minuscole entità politiche, autoproclamate nel corso della storia da bizzarri quanto eccentrici personaggi. Dal Principato di Ladonia a quello di Sealand, dall’Isola di Tavolara in Sardegna fino a Seborga in Liguria, le micronazioni sono storie reali che in qualche caso superano la realtà. Con un territorio, costumi, leggi e, in qualche caso, anche una propria moneta, si muovono sempre al limite del paradosso. Per saperne di più abbiamo intervistato l’autore del libro Graziano Graziani.
Come ti sei avvicinato alle micronazioni, e cosa ti affascina di più di questa particolare materia?
Circa dieci anni fa scrivevo per un settimanale che oggi non c’è più, Carta. Mi occupavo, tra le altre cose, di diritti digitali e stavo seguendo la storia di The Pirate Bay, il portale per il file sharing che ha dato vita anche ad un movimento politico (sono riusciti persino a mandare un loro rappresentante al parlamento europeo). Gli attivisti di The Pirate Bay all’epoca erano in cerca di un luogo dive istallare i loro server che fosse al riparo dalla legislazione europea sul copyright. Individuarono un piccolo principato al largo delle coste inglesi: Sealand. Un principato che per di più era in vendita: i loro fondatori si erano un po’ stufati di quella piattaforma artificiale in acque internazionali e cercavano di venderla a caro prezzo. I “pirati” informatici provarono col crowdfunding, ma poi non se ne fece niente. Io però ero affascinato da questa storia: un principato nel mare del nord? che non aderisce all’Europa? Non ne avevo mai sentito parlare. Così decido di approfondire. E scopro che di persone che avevano tentato di dichiarare indipendente un’isola, uno sperone di roccia, un quartiere o persino solo un appartamento ne esistevano parecchie. Un vero e proprio continente sommerso.
Così mi sono messo alla ricerca di storie, ne ho trovate di molto diverse, ma da subito ho pensato a un libro. Anche se si tratta di storie molto diverse tra loro: alcune dichiaratamente effimere, altre veicolo di protesta, altre ancora veri e propri tentativi di secessione. Però tutte avevano una radice eccentrica e la capacita di parlare in modo divertente – in modo più o meno involontario – di alcuni concetti fondamentali del nostro presente: la cittadinanza, i confini, l’identità politica.
E poi io sono un appassionato di letteratura di viaggio, ma anche di mappe fantastiche, di geografie letterarie, da Borges a Calvino a Daumal. Mi sembrava l’occasione perfetta per incrociare tutte queste passioni. Oggi che il mondo è interamente mappato e lo si può addirittura guardare da casa attraverso Google maps, come fare a scrivere di libro di luoghi inesplorati? Le micronazioni erano la risposta. E lo stesso vale per le mappe fantastiche: questo è certamente un libro di non-fiction, ma di fantasia ce n’è tanta, quella di chi si è avventurato nel tentativo folle di fondare una nuova nazione partendo da basi microscopiche. In fondo le storie di questo atlante sono delle piccole epopee di fondazione, che finiscono spesso in una bolla di sapone o comunque scompaiono con il loro fondatore. Questo, dal mio punto di vista, rende l’operazione dell’Atlante profondamente letteraria. Anche se si tratta di una letteratura obliqua e poco classificabile. Difatti, a seconda della libreria, l’Atlante viene collocato in “scienze politiche”, “narrativa” o addirittura tra le guide turistiche. Ognuno vede ciò che vuol vedere.
Nel libro spieghi che le micronazioni nascono spesso attorno ad un’utopia (che di frequente prende corpo in un’isola). Perché secondo te?
Beh, l’isola è la forma classica dell’utopia. A partire da Tommaso Moro, che coniò il termine giusto cinquecento anni fa, quando diede alle stampe il suo “libellus” della “nova insula Utopia”. L’utopia è una forma di governo che immaginiamo pacifica e a suo modo “risolta” nelle tensioni sociali: nella nostra immaginazione c’è bisogno di un luogo raccolto, discreto, delimitato dove poter applicare per intero la forma utopica di governo e di coesistenza. Difficile immaginare un’utopia che copra il mondo intero, almeno se vogliamo descriverne nel dettaglio il funzionamento. Un luogo piccolo è molto più funzionale per descrivere l’utopia che intediamo realizzare. Anche Platone nella Repubblica – che è stato fonte di ispirazione per Thomas More – parla di una “città ideale”, dunque di un luogo circoscritto.
Non si tratta soltanto di un’esigenza “narrativa”. E’ che nei luoghi circoscritti il concetto di cittadinanza si costruisce attivamente, mentre nelle grandi nazioni una larga fetta di popolazione vive la cittadinanza come una serie di diritti/doveri impersonali. Faccio un esempio concreto. I primi di gennaio del 2009 sono stato a Sark, un’isola che si trova nel canale della Manica e la cui storia ho inserito nel mio Atlante (anche se non è una vera e propria micronazione). Su quell’isola, che gode di una speciale autonomia, vivono di inverno non più di 300 persone. All’epoca di era creata una disputa tra chi aveva sostenuto il passaggio alla “democrazia”, imposto dalla corte europea, e chi sosteneva invece il vecchio regime feudale che andava avanti dal Quattrocento. La differenza? Il modo in cui veniva eletta l’assemblea legislativa. Con il vecchio sistema vi sedevano i 40 tenutari terrieri, ovvero i proprietari dei quaranta lotti in cui è suddivisa l’isola. Col nuovo sistema i 40 rappresentati vengono invece eletti da tutti i cittadini maggiorenni. “Cambierà qualcosa?” ho chiesto ad alcuni sarkesi. “Mah – è stata la risposta – per le decisioni importanti ci vediamo tutti a pub e discutiamo. Probabilmente continueremo a farlo”.
Alcune micronazioni sono esclusivamente progetti virtuali, che ruolo gioca la Rete?
Io ho preferito non prendere in considerazione le nazioni meramente virtuali. Ce ne sono molte, ma in quel caso si sfiora troppo l’ambito puramente fantastico o la rievocazione storica. Il tutto sul web, come un puro esperimento ludico o propagandistico. Per la redazione dell’Atlante ho preferito attenermi a un criterio territoriale, almeno dal punto di vista della rivendicazione quando non c’è un effettivo controllo del territorio. Perché credo che quando la pretesa di fondare una nazione, astrusa o reale che sia, si incrocia con le leggi e i confini reali, percepiti come tali dalle popolazioni o difese con la forza dai governi, allora si innescano dei cortocircuiti tra realtà e finzione che rendono le epopee micronazionali delle storie davvero interessanti, anche quando sono velleitarie.
Ciò detto la rete gioca un ruolo importantissimo, perché conferisce visibilità. Prima dell’avvento di internet queste storie erano ricordate solo a livello locale, come delle stranezze da raccontare a chi veniva in vacanza in Sardegna (con l’isola di Tavolara) o era in vena di rievocazioni lungo la riviera a Rimini (con l’Isola delle Rose), tanto per fare qualche esempio. Con l’avvento di internet è diventato immediatamente visibile che il fenomeno non si limitava alla follia o al genio di un personaggio isolato: ce ne sono tante e in diverse parti del mondo. In questo modo è uscito allo scoperto il “continente sommerso” di cui parlavo prima. Prima della rete solo le riviste di filatelia e numismatica si erano accorte dell’esistenza di questi esperimenti statuali, attratti dalle stranezze di monete e francobolli emessi da entità che non si erano mai sentite nominare prima. Oggi le micronazioni fanno meeting internazionali (io sono stato a quello di Londra del 2012), accordi bilaterali e si riconoscono a vicenda. In fondo una nazione esiste solo in virtù di due atti: la proclamazione, che una faccenda “interna”; e il riconoscimento, che è invece una faccenda “esterna”, messa in atto da altri stati. Se quelli ufficiali si rifiutano di riconoscere le realtà microscopiche, sono loro stesse, oramai, a riconoscersi a vicenda.
Tra le storie che colpiscono di più nel libro c’è sicuramente quella del Principato di Ladonia, la micronazione che incarna l’idea dell’”opera d’arte”.
Ladonia è un caso paradossale e molto divertente. Nata come forma di protesta, perché due sculture dell’artista svedese Lars Vilks rischiavano la demolizione. Non riuscendo a farsi ascoltare dalle autorità, il gruppo che sosteneva Vilks optò per la secessione dalla Svezia delle stesse opere d’arte. Nacque così il Principato, un progetto a cavallo tra lo scherzo dadà e l’attivismo artistico, perché ovviamente non era possibile andare a vivere su una scultura. Tuttavia, aprendo il sito ufficiale di Ladonia, il governo si è visto piovere addosso migliaia di richieste di cittadinanza da parte di persone di origine pakistana. Ottenere la cittadinanza era infatti una cosa semplicissima, bastava pagare pochi dollari, che servivano a sostenere il progetto. Vai a spiegare a quelle persone, che pensavano di aver trovato una via d’accesso per un nuovo futuro in Europa, che il passaporto di Ladonia non dà diritto alla libera circolazione nel continente e che il Principato non fa parte dell’UE e nemmeno vi si può risiedere…
Il caso di Ladonia è uno di quelli dove si vede in maniera lampante il cortocircuito tra realtà e finzione che si può creare attorno alle micronazioni. Anche per questo, nel capitolo dedicato alle “opere d’arte”, ho fatto una deroga alla caratteristica della “territorialità” che invece ho seguito scrupolosamente nel resto del libro. Perché gli artisti, a differenza delle nazioni virtuali, sono in grado di sguardi approfonditi sui concetti di nazionalità, cittadinanza e confine e sono in grado quindi di innnestare quel cortocircuito tra finzione e realtà che è uno dei cuori pulsanti delle storie raccolte nell’Atlante
In un’intervista hai parlato del tuo libro (in una delle possibili letture) come di un atlante “fantastico”. Qual è il peso del “racconto” nelle vicende di una micronazione?
Ho parlato di un “atlante fantastico” perché penso che ne abbia le caratteristiche narrative, ma è bene chiarire che le storie sono vere. Si tratta della dimensione letteraria di cui parlavo prima, che per me è l’anima del libro.
Detto questo, è chiaro che la narrazione è il cuore pulsante delle storie. Perché, visto che parliamo di autoproclamazioni, di cosa altro sono fatte queste realtà se non del “racconto dello stato che vorrebbero essere”?
Il racconto è al centro dell’identità di qualunque gruppo umano o società, figuriamoci di una nazione. Ed è un discorso che vale per il micro quanto per il macro. Pensa al racconto della frontiera americana, del far west. Si tratta di un mito di fondazione che ha poco a che vedere con tutti i crimini del colonialismo che pure fanno parte di quella pagina di storia. Eppure è centrale nel modo che ha quella nazione di percepire se stessa. Lo stesso discorso si può fare con il Risorgimento, che ha plasmato l’idea di una riscossa identitaria del popolo italiano oltre che la toponomastica di tutte le nostre città, ma che ha messo la sordina al fenomeno del brigantaggio (e già la denominazione con cui identifichiamo gli episodi di ribellione al sud la dice lunga su quale scala valoriale implicita accettiamo quando ne parliamo).
Insomma, la narrazione è sempre fondamentale, tanto per le nazioni micro quanto per quelle macro. E la storia, è bene ricordarselo, la scrivono sempre i vincitori.
Ecco, da un certo punto di vista questo Atlante è anche un modo di riscrivere la geografia da un altro punto di vista.
Certo, siamo a cavallo tra l’immaginazione e la realtà, ma quale utopia e quale epopea in fondo non lo sono?
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Graziano Graziani è nato a Roma. È tra i conduttori di «Fahrenheit» (Rai Radio 3) e collabora con Rai 5. Ha scritto e scrive per diverse testate, da «Lo Straniero» a «Minima&Moralia». Scrive di teatro contemporaneo, come critico, o almeno ci prova. Prima di occuparsi di micronazioni ha pubblicato un romanzo atipico, Esperia (Gaffi, 2008) e una spoon river romanesca, I sonetti der Corvaccio (La camera verde, 2011).
http://grazianograziani.wordpress.com/