Se cercate qualcuno che ancora crede al potere della musica di cambiare il mondo, lo incontrerete più facilmente per le strade di Dajla che di qualsiasi altra metropoli occidentale.
Qui, sulla costa atlantica del Sahara Occidentale, quella che ai tempi della colonizzazione spagnola era Villa Cisneros è stata trasformata dagli occupanti marocchini in una località di sport acquatici. Per le sue strade nel 2005 si tenne una manifestazione pacifica a sostegno dell’indipendenza e del Fronte Polisario che le autorità del Marocco soffocarono con arresti indiscriminati e torture.
Ma c’è un’altra Dajla nella regione di Tinduf, in Algeria, dove si trovano i campi di profughi Saharawi. Qui nel 1976 è nata Aziza Brahim, musicista e attivista, esule da una vita che l’ha portata dal campo profughi a Cuba con una borsa di studio e poi in Spagna.
Oggi Aziza vive a Barcellona dove ha inciso il suo terzo album, Abbar el Hamada (Attraverso l’Hamada), pubblicato ai primi di marzo da Glitterbeat Records. Come il precedente Soutak è stato prodotto da Chris Eckman (Bassekou Kouyate, Tamikrest, Dirtmusic) e nel titolo racchiude il destino del popolo Saharawi negli ultimi quarant’anni: una diaspora e un transito, nonostante la condanna alla stanzialità in quei campi costruiti nel paesaggio desertico, roccioso e inospitale dell’Hamada.
Nelle tracce è riconoscibile l’impronta sonora data dai chitarristi maliani Samba Toure (in Mani – un blues lento e implacabile) e Kalilou Sangare, che si fonde con i ritmi tradizionali Saharawi e di altri paesi dell’Africa occidentale come il Senegal.
Ma soprattutto emerge la voce di Aziza e i suoi versi, a volte presi in prestito dalla nonna El-Jadra Mint Mabruk, che nei campi chiamavano “la poetessa del fucile”. E’ una voce potente, fiera e canta per fermare il tempo che va nella direzione sbagliata.
Per i Saharawi accade da quarant’anni, da quando gli spagnoli lasciarono la colonia e il Marocco invase il Paese assumendone il controllo: “Il tempo scorre come i chilometri su un’autostrada, solo che il viaggio è irreversibile – dice Aziza – E’ una strada che va dal napalm alle mine antiuomo e passa per l’esodo nei campi profughi del Sud dell’Algeria, una marcia dal colonialismo medievale all’imperialismo neoliberale, con la complicità silenziosa delle grandi organizzazioni internazionali. Ogni singolo passo ci ha spinti verso l’utopia: non possiamo vivere in pace nel nostro paese, i nostri passaporti appartengono ad altri stati, non possiamo guardare serenamente l’orizzonte della nostra costa atlantica. Quando parliamo del nostro paese, parliamo di un luogo dove non si può vivere liberi, nel proprio spazio, con uno status riconosciuto. Ma quel paese esiste senza restrizioni nelle nostre parole, nella memoria, nella nostra libertà di pensiero e di espressione, nella nostra cultura e nelle nostre voci.”
Aziza ha il cuore rivolto al suo paese martoriato, ma da Barcellona con lo sguardo abbraccia il Mediterraneo, autostrada e cimitero di migliaia di esseri umani in fuga da altri Paesi cancellati dalla faccia della Terra e dalla storia e da Paesi in cui si continuano a costruire muri, come quelli che canta in Los Muros: 2.700 km di fortificazioni di sabbia erette dal Marocco lungo il Sahara Occidentale per impedire ai Saharawi di tornare a casa. Ma se i muri sono universali, lo è anche lo spirito di chi è impegnato a scavalcarli, o perlomeno a trascenderli, in Messico, Palestina o Ungheria. Aziza canta anche per loro, e per chi vive nelle strade delle Dajla di tutto il mondo.