Leonardo DiCaprio torna a casa sconsolato, forse lo è più di tutti, persino di Bradley Cooper che a fine serata ha guadagnato almeno un gratta e vinci da Ellen Degeneres, ed è già la quarta volta che l’Academy, quel nugolo di menti sadiche e perverse, lo candida ma poi lo ignora, come quando al liceo ti invitavano alla festa più figa dell’anno, ma poi ti costringevano a suonare la chitarra mentre gli altri limonavano. Vincono tutti, tranne lui e Bradley Cooper naturalmente, che però non ha il talento e la carriera di Leo. Forse essere l’attore feticcio di Martin Scorsese, quello che a 30 anni prese una camera a spalla, un disco dei Rolling Stones e un giovane sbarbatello fresco di Actors Studio come Robert De Niro e creò la Nuova Hollywood, maledicendo le major e tutti i filistei in doppiopetto, non gli ha portato un granché bene tra le poltrone del Dolby Theater. Eppure che cosa sarebbe stato The Wolf of Wall Street senza quella performance totalizzante, senza la sua tracotante verbosità, senza quella fisicità nervosa, senza quella maschera di superbia e disperazione che da sola, senza nani e ballerine e coca, avrebbe raccontato un mondo? Cosa sarebbero stati film come Buon compleanno Mr. Grape, Revolutionary Road, The Beach, The Aviator, Shutter Island?
Ma gli Oscar, si sa, sono una strana giostra e, persino, un gigante come Al Pacino dopo decine di capolavori, dovette aspettare un film brutto e insignificante come Profumo di donna, rifacimento dell’omonimo film di Dino Risi degli anni Settanta, per stringere lo zio Oscar tra le mani.
A vincere è stato, invece, Matthew McConaughey per la sua interpretazione di Ron Woodroof in Dallas Buyers Club, non ha vinto solo l’estrema magrezza – quella vince sempre a Hollywood, chiedetelo a Christian Bale – perché, che piaccia o no, il Big Jim texano che fino a qualche anno fa suonava i bonghi strafatto di canne e Bud, oggi è un uomo e un attore nuovo. Già strepitoso in Killer Joe di William Friedkin, nel film di Vallée lascia davvero senza fiato. Magro e femmina come poche donne riescono ad essere, Jared Leto vince come miglior attore non protagonista, noi che lo abbiamo incontrato a novembre a Roma, lo sapevamo che dietro le orde barbariche di fan e quel suo stile fastidiosamente glam rock, si nascondeva del talento.
Tra le donne vince l’eleganza di Cate Blanchett in Blue Jasmine di Woody Allen e la freschezza di Lupita Nyong’o in 12 Anni Schiavo di Steve McQueen che, a proposito, si porta a casa la statuetta come miglior film e come miglior sceneggiatura non originale. La parabola dello Zio Tom, come avevamo predetto, stravince, bisogna prendere nota per il futuro. McQueen saltella sul palco attorniato dal cast e dai produttori ubriachi di un successo sfornato come la pizza che la brava Ellen distribuisce agli astanti, ringrazia tutti Steve, soprattutto gli schiavi e Solomon che gli ha anche regalato una bella storia, terribile umanamente, ma cinematograficamente perfetta. Lui, Solomon, non lo sapeva mica che a Hollywood sono bravissimi a costruire capolavori con le vite degli altri. I peccati sono stati lavati. Grazie mille Solomon!
Per fortuna qualcuno si è ricordato che il cinema è altro e ha premiato Alfonso Cuaròn per il suo Gravity con ben 7 statuette tra cui quella per la miglior regia.
Her di Spike Jonze ottiene, invece, l’Oscar come migliore sceneggiatura originale, comunque non abbastanza per un affresco sull’umanità e sui sentimenti ai tempi del 2.0.
Restano fuori, a bere e a fumare conoscendo i tipi, American Hustle di David O. Russell e Nebraska di Alexander Payne, forse sono come quelle rare e belle canzoni che chissà per quale misteriosa ragione arrivano a San Remo, non possono vincere, non possono confrontarsi con mesi e mesi di apparizioni tv, interviste radio, spot pubblicitari, talent show, se succedesse probabilmente il mondo come lo conosciamo imploderebbe. Ecco, più o meno, queste due pellicole sono due rare e belle canzoni. Ma nessuno di loro ha svegliato lo zio Tom per chiedergli la magia.
E tra un selfie con Bradley Cooper che ha le braccia troppe corte e ha tagliato il bel viso angelico di Jared Leto, tra un ricordo musicato di quelli che non ci sono più ma resteranno per sempre, i riccioli d’oro di Shirley Temple, lo sguardo malinconico di Philip Seymour Hoffman e il faccione di James Gandolfini, ci è scappato persino un Oscar per il miglior film straniero a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, che dice “tenchiu” a tutti, a Fellini, a Scorsese, a Maradona, a Roma, a Napoli, alla moglie, alle figlie, a tutti, tutti. E forse non sarà stato un discorso entusiasmante come quello di Benigni nel 1999, ma in quel “tenchiu” c’è anche un po’ di noi, un po’ di quell’italianità di cui mai come in questi anni ci vergogniamo tanto.
Perciò a tutti tenchiu!
Chiara Ribaldo / Bake Agency