La quinta giornata del Festival si è aperta con due anteprime, entrambe in concorso, il film di genere Out of Furnace dell’americano Scott Cooper e I corpi estranei di Mirko Locatelli. Storie di vite fragili, fotografie di uomini soli e a pezzi in una realtà che inghiotte e non perdona.
La pellicola di Cooper, la seconda dopo Crazy Heart, ambientata in una piccola provincia del nord est americano, racconta la vita dei fratelli Baze, Russell e Rodney, il primo operaio in un’acciaieria con il sogno di una moglie e una casa, il secondo reduce di guerra che affoga i suoi tormenti e i debiti in alcol e combattimenti clandestini. Quando Rodney resta coinvolto in un giro più grande di lui e scompare, il fratello si mette sulle sue tracce. Quello che segue dopo è tutto già visto, c’è il cattivo che più cattivo non si può, c’è la polizia che brancola nel buio, e c’è l’eroe solitario e taciturno che alla fine, imbracciando il suo fucile, si fa giustizia da solo. Persino il paesaggio, fuori dalla fornace, sembra già visto, identico a quello de Il cacciatore di Michael Cimino (1978), con la medesima scena della caccia al cervo a cui, alla fine viene risparmiata la vita. Russell come Mike, ma con molta meno intensità. Ci sono le case sgarrupate, l’acciaieria e i suoi fumi, il piccolo pub in cui tutti si danno del tu, c’è la guerra – in Iraq e non in Vietnam – c’è la solitudine. L’espressionismo di Cimino, però, è ben altra cosa.
Il film di Cooper ha buone premesse, ottimi interpreti – tra cui spiccano i protagonisti, Christian Bale e Casey Affleck, e i cattivi, Willem Dafoe e un immenso Woody Harrelson – e Eddie Vedder come tappeto musicale, che non guasta mai. Però ha solo questo. Un action da pop corn del sabato sera.
Di altro tipo (almeno nelle intenzioni) è la pellicola di Mirko Locatelli, anche lui alla sua opera seconda. Antonio, interpretato da Filippo Timi, è un padre umbro a Milano per curare il figlio Pietro di appena 3 anni malato di cancro. In ospedale incontra Jaber (l’esordiente Jaouher Brahim), 15 anni, immigrato nordafricano che è lì per prendersi cura di un amico. Entrambi immigrati, si studiano, si sfiorano, si scontrano, ciascuno alle prese con il proprio dolore, la malattia e la diffidenza verso l’altro.
Il film ha lunghi piani sequenza, silenzi interminabili, a voler comunicare il senso di profondo smarrimento dei due protagonisti, che si aggirano per i corridoi dell’ospedale o tra strade quasi sempre bagnate dalla pioggia. La recitazione è volutamente assente, a richiamare uno stile documentaristico, asciutto, essenziale. I dialoghi sono scarni e, in alcune sequenze, persino improvvisati.
Purtroppo, però, non ci troviamo di fronte ad un capolavoro naturalista. Ci siamo persi – lo confessiamo – nelle maglie troppo larghe di questa messa in scena e in un autorialismo un po’ troppo compiaciuto. La tecnica dovrebbe piegarsi a cospetto della storia e, invece, in questo caso la fagocita. Non ci si improvvisa autori e nel cinema d’autore, nell’idea della Nouvelle Vague ad esempio, ma non solo, la forma e il contenuto devono muoversi nella stessa direzione, devono servirsi reciprocamente.
Alla fine della proiezione c’è solo un flebile applauso e molti sbadigli, anche la conferenza stampa non è entusiasmante, nonostante il regista cerchi di motivare le sue scelte: “Quando si racconta una malattia come il cancro, ci vuole pudore, altrimenti si rischia di diventare patetici. A me interessava soprattutto la fragilità umana dei protagonisti, il resto è stato solo un pretesto (…) Il film è nato da una frase che una volta ho sentito pronunciare in tv ad un uomo sulla cinquantina che diceva di sentirsi in guerra contro gli immigrati, gli stranieri. Mi ha molto impressionato sentir parlare di guerra in tempo di pace. Mi sono spaventato. Da quella sensazione è nata l’idea di far incontrare due personaggi così diversi, che vengono da due culture lontane, ma che nel dolore e nella malattia trovano un punto comune.”
Filippo Timi, invece, motiva così la scelta del ruolo: “ A 6 anni i miei mi portarono a Pisa perché zoppicavo, io allora non lo sapevo e per me quel viaggio fu un gioco, una scoperta, seppi dopo che ci andammo perché pensavano avessi un tumore alle ossa. Dissi a mia madre, in ospedale: ‘Guarda mamma, mi hanno messo il camice, così se muoio sono già vestito da Angelo’, mi ricordo che lei svenne. Solo dopo ho realizzato. Ecco, credo sia impossibile rappresentare un dolore simile, il dolore di un genitore, per questo non ho recitato, non ho avuto tempo e poi quello che era importante era relazionarmi con un bambino, che come è ovvio non sta fingendo, e rendere quella relazione più vera possibile. È di certo il film più documentaristico che abbia mai fatto. Non mi sono mai preoccupato di recitato, ora magari mi direte che invece avrei dovuto. Insomma, non mi importa, non devo dimostrare nulla, non mi piacciono quegli attori che devono dimostrare di essere i più bravi di tutti (…) Antonio è umbro, è chiuso, grezzo, non vuole aprirsi al mondo, ma alla fine è costretto ad aprire gli occhi, l’incontro con Jaber crea un’apertura sui suoi pregiudizi. Inoltre, quando una storia ti piace e senti che parla proprio a te, beh questo è già un regalo. Poi è solo un caso avessi una telecamera che mi seguiva praticamente sempre.”
I corpi estranei è un’occasione mancata, un film che avrebbe potuto, anzi dovuto spingersi oltre.
Chiara Ribaldo|Bake Agency