“Competizione” significa etimologicamente una situazione in cui più soggetti si contendono qualcosa la cui disponibilità è limitata, tendono cioè entrambi (-con) allo stesso obiettivo. E sia inteso che non ce n’è per tutti. Dovrebbe seguire una seria verifica sull’affermazione che “non ce n’è per tutti” e su quali siano i criteri con cui decidiamo chi “resta fuori”. Ma non accade.
L’ipoteca ideologica dell’uso corrente è evidente e bilaterale: da un lato c’è il premio dato a chi lo merita di più, mentre dall’altro c’è una generalizzata corsa a fare meglio con un aumento dell’efficienza complessiva del sistema e con benefici che in ultima analisi saranno generalizzati a tutta la società o ad una parte maggioritaria di essa. Eppure, grazie alla competizione, usiamo quasi tutti mutande di pessima qualità prodotte in Bangladesh da schiavi.
Nell’ambito specifico dell’ informazione, la competizione tra testate ci impone news che stimolano l’indignazione, solo perché il noir ha un appeal narrativo immediatamente sfruttabile in poche frasi ad effetto. Abbiamo assistito a campagne elettorali centrate sull’ ”emergenza sicurezza”, oppure sul taglio degli stipendi ai politici, fenomeni non certo rilevanti dal punto di vista dell’effettivo miglioramento della qualità di vita degli elettori. La competizione per il lavoro ha come premessa implicita che esso sia una merce e che non ce ne sia per tutti. Di conseguenza, il lavoratore deve vedere l’altro lavoratore come “competitore”, più che come alleato. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti: caduta dei salari, crescente disuguaglianza sociale, progressiva proletarizzazione del ceto medio con conseguenze marcate sulla tenuta del tessuto democratico delle stesse economie liberali mature.
Il paradigma che viene proposto dai fautori della competizione è sempre quello sportivo: è giusto che i 100m piani li vinca Bolt, no? Tuttavia, in tutti gli altri casi, i valori su cui si misurano i con-tendenti sono soggetti più che a misurazioni oggettive a spasmi emotivi, l’effetto generale è l’infantilizzazione collettiva, raccontata come democratizzazione dei processi di selezione della classe dirigente. La competizione quindi può stimolare – e spesso lo fa – una corsa all’arma più efficace per sconfiggere i concorrenti più prossimi, questo però non ci dice nulla sui suoi effetti di sistema. Un pericoloso caso di miopia. In altri termini la competizione riduce le questioni ad un paradigma agonistico che in molti casi sarebbe meglio disinnescare.