Quando vivete un momento di amarezza entrare in un negozio e uscirne con un bene, la cui fruizione non termini nel momento dell’acquisto, può aiutarvi a superare quel momento. È successo anche qui da noi, in Italia, in tempi non lontani.
Ovviamente Pierpaolo Pasolini aveva capito che si trattava di una mutazione antropologica, e ne ha scritto meglio di quanto possa fare io.
Credo che quando enfatizziamo la nostra identità pubblica come “consumatori” diamo per scontate attitudini che non dovrebbero esserlo. Ad esempio che è scomparsa la nostra presa sulla realtà come cittadini. In effetti il boicottaggio ci sembra – sempre più spesso – l’unica arma politica in nostro possesso.
Il voto democratico è stato svuotato dall’interno dei palazzi del potere: chiunque governi è chiamato a ratificare decisioni prese da organismi molto più potenti ed efficaci di un governo eletto, consigli di amministrazione di multinazionali, organismi sovranazionali di indirizzo economico, istituzioni finanziarie private. Questo è avvenuto in pochi decenni, con un’inversione repentina e senza precedenti del cammino intrapreso con la rivoluzione francese, che ha in modo a volte traumatico e con un incedere non sempre lineare teso ad allargare la base del potere e a limitarne la libertà di azione.
Il paradigma della Grecia è un esempio per tutti, anche se spero non agirà nel senso che hanno inteso imprimergli le istituzioni europee (molto lontane, a voler essere moderati, da ogni tipo di legittimazione democratica): se votiamo in massa una forza politica che si contrappone in modo deciso alle politiche neo-liberiste, sarà solo l’occasione per ribadire la necessità di queste politiche, imponendole a quella parte politica, in nome di una autorità superiore che si presenta con la forza della necessità.
Con alcuni effetti collaterali possibili: spingere alla radicalizzazione il dibattito politico, e privare dei consensi i partiti che si oppongono al pensiero unico. L’imposizione può avvenire per corruzione dei politici che mi limiterò a nominare “di sinistra”, oppure a piegarli con condizioni capestro umilianti che ne spengono ogni credibilità.
Ma tutto ciò è possibile grazie all’indebitamento. Degli stati, delle banche, dei cittadini.
In questo senso occorre riconoscere che la finanza ha un ruolo strutturale nel capitalismo di oggi e non come speculazione, facile ma parziale bersaglio, ma come posticipazione indefinita della crisi di sovrapproduzione, che si manifesta con una perdita di potere d’acquisto complessiva tale che lascerebbe invenduti gran parte dei beni e di servizi prodotti.
Così ci si indebita. A livello individuale e collettivo. Così si creano strumenti di ulteriore rifinanziamento e ulteriore dilazione del debito. Finché una delle tante bolle, locali o di filiera, non scoppia. E allora è necessario forzare la capacità di restituzione di chi è indebitato, sotto forma di altro lavoro, a minore prezzo, con minore diritti e diminuendo contemporaneamente la qualità e la quantità di beni e servizi acquistabili. Questa è l’austerità: gran parte di ciò a cui rinunciamo – non volontariamente – e del lavoro che facciamo, non serve più a remunerare investimenti e lavoro, ma a rifinanziare il debito.
A occhio mi sembra una forma contemporanea di schiavitù per debiti.
Servivano un ingegno e una sensibilità fini come quella di Pasolini per accorgersene in pieno entusiasmo da miracolo economico. Questa deriva del capitalismo era già evidente allora, per chi proprio come lui, avesse voluto affrontarne le conseguenze ultime con gli strumenti dell’analisi marxista, seppure non ortodossa, temperata con le riflessioni di Gramsci.
I Greci stanno pagando il fatto di essere diventati consumatori. Negli anni Ottanta gran parte di ciò che si consumava in Grecia, come in ogni paese occidentale, era prodotto in quel paese. Questo elemento favoriva un certo equilibrio, pur non sottraendosi alle periodiche crisi di sovrapproduzione, inevitabili nel sistema capitalista in cui è necessario massimizzare i profitti e l’accumulo. Il fatto che il problema sia stato via via spostato su scala globale, ha spostato anche i poteri – più lontani dal consenso – e la possibilità di agire sulle periodiche storture del mercato attraverso l’intervento pubblico.
Intanto l’allargamento della base del consumo globale sta portando a enormi problemi ambientali, ma non è arrestabile: è il carbone che la finanza brucia per andare avanti. Il trasferimento delle fonti di profitto dall’economia reale alla finanza, risolve nel breve periodo gli squilibri tra potere d’acquisto di chi produce e la produzione stessa, ma non i problemi ambientali determinati da una sempre più veloce corsa alla produzione (nei paesei emergenti) e al consumo (nei paesi a economia matura, dove il lavoro costa perché implica dei diritti di cittadinanza). Anche quando non ci sono i presupposti per consumare. Perché la nostra identità è impregnata di consumo.