Ok, ci siamo, finalmente si parla di sport. Nell’epoca in cui tutto diventa impresa e in cui i profitti sono determinati in larga parte da componenti immateriali della produzione lo sport – il calcio in particolare – non può rimanere terra vergine. Così, sfogliando on-line le notizie relative alla mia squadra, mi imbatto in plus-valenze, Fair Play finanziario, su quanto si guadagnerebbe a superare il turno preliminare della Champions League. E gli operatori dell’informazione non fanno una piega, anzi, qualcuno ha anche la prosopopea di chi la sa lunga e vi racconta il retroscena.
Fair Play finanziario è il fulcro di questa trasformazione dello sport professionistico in impresa: fino a un paio di decenni fa – lo sport professionistico esiste da tempo – di fatto era solo un capitolo di spesa per chi se ne occupava, al netto degli incassi dello stadio. Le squadre di calcio o di basket avevano sponsor, avevano un presidente, in genere ricco o così abile nel truccare i bilanci da apparire tale, che si trastullava col suo giocattolo per la gioia dei propri concittadini, nel veder arrivare alla squadra del cuore Maradona, Van Basten o Platini.
Poi c’è stata la rivoluzione delle TV a pagamento, con la valanga di miliardi rovesciati sul mondo del calcio per ottenere il diritto di trasmettere le partite in esclusiva. E il merchandising. Lo stadio di proprietà della società sportiva: tutti passaggi necessari alla commercializzazione capillare di un fenomeno assai popolare.
Fair Play finanziario è – come le regole di bilancio dell’UE – una serie di imposizioni che di fatto, con le dovute eccezioni (ma dove non ce ne sono, nel libero mercato delle regole buone solo per chi non ha avvocati abbastanza bravi da aggirarle?), possono persino essere allentate. Questo significa che – come già gli stati, anche le squadre di calcio sono chiamate a comportarsi come aziende, perché, di fatto, lo sono diventate. Poco male, i giocatori sono giocatori e i manager sono manager, dirà qualcuno che ancora ha il vizio di sognare in curva. Non è proprio così: un tempo si cercava di formare la squadra più forte. Oggi, anche il calcio è stato inglobato nel marketing: se compri un giocatore come Bale per 105 milioni di euro, una parte dell’investimento si ripaga in magliette vendute in tutto il mondo. Certo, perché come ogni altra attività imprenditoriale che si rispetti, anche il calcio ha come teatro il mondo intero, fino a fenomeni inguardabili come gli indonesiani che tifano Roma. E per vendere magliette a Giacarta è meglio ingaggiare un campione un po’ bollito, probabilmente non adattissimo al gioco della squadra, ma molto noto per aver giocato in una squadra proprietà di sceicchi che del marketing ha fatto la sua bandiera.
La frase dello stranoto allenatore di football americano John Madden recita: “Gli attacchi fanno vendere i biglietti, le difese fanno vincere le partite”, esprimeva una preferenza chiara, per chi ama lo sport. E invece la polarità di valori, oggi è invertita. Per cui meglio un attaccante con la cresta, i tatuaggi e un nome breve (ma se è un soprannome è meglio), magari anche con atteggiamenti da divo isterico, che non un ottimo giocatore del vivaio, con il nome non tanto adatto ad essere stampato su una maglietta.
Ciò detto la domanda che si pone, da quando si parla di Fair Play finanziario, è: tifare per una squadra ha senso. Ma tifare per un’azienda?