Vi è capitato di ascoltare elogi estasiati delle competenze informatiche dei figli dei vostri amici. O dei nipoti: preadolescenti ai confini della genialità “che con internet sanno fare tutto”.
Se volete vendere qualcosa a qualcuno e ancor più mostrare che siete attenti a un target nuovo, anzi al target più appetibile di tutti, la prima formula magica che dovete imparare ad usare è quella che definisce gli ebeti che avete attorno, con lo sguardo spento e che rispondono “Eh?” a ogni domanda perché in genere non sanno nemmeno dove si trovano.
Si chiamano nativi digitali, sono i nuovi idoli del mercato. E questo dovrebbe insospettire sulla loro effettiva genialità, in tempi di fortune costruite su gadget ad obsolescenza programmata, e su start-up che vendono moltissimo anche se non si capisce bene cosa.
Per cui il sito di un noto gestore di telefonia, ne parla ancora entusiasta pochi giorni fa , la neo presidente della Rai vorrebbe adeguare i contenuti alle loro esigenze: l’unica ipotesi percorribile è la malafede o l’ignoranza, dato che già tre anni fa una accurata ricerca dell’Università Milano Bicocca, ripresa inopinatamente persino da un amaro sito governativo , sfata la teoria per cui – cito il sito dell’operatore di telefonia mobile – “Un nativo è sicuramente qualcuno che conosce e gestisce perfettamente la tecnologia del suo tempo”. Ecco cosa ne dice l’articolo citato su Agenda digitale: “non sanno riconoscere una pagina di login fasulla guardandone l’URL (e non chiamatelo URL, se non volete che vi guardino basiti) e non hanno idea di come si reggano in piedi economicamente i siti commerciali più popolari.
Due su tre hanno uno smartphone e la metà lo usa per andare online tutti i giorni: la fruizione della Rete da postazione fissa sta diventando minoritaria. Il computer, se c’è, è prevalentemente un portatile: sigillato, non modificabile, da usare a scatola chiusa, come lo sono i tablet e gli smartphone. Questo rende molto più difficile che in passato l’apprendimento di come funzionano i dispositivi e le tecnologie di uso quotidiano. I “nativi digitali” stanno crescendo in un mondo nel quale non solo non sanno, ma non possono smontare, smanettare, sperimentare, in parole povere diventare hacker, nell’accezione originale, positiva e sempre più spesso dimenticata, di questo termine.”
Il sistema chiuso in cui vivono li circonda automaticamente di tutto ciò che a loro piace, aggiungo, demolendo in una botta sola – il sogno di ogni direttore marketing – il sapere critico e la possibilità di svicolare dalla nicchia – sempre di mercato – in cui sono stati relegati.
“Nativi digitali” in realtà è un’espressione feticcio che serve moltissimo a lasciare inevasi tutti i problemi relativi all’avvento dei social network: noi, che nativi digitali non siamo abbiamo perso reddito e autostima per sopraggiunta automazione del nostro lavoro intellettuale, siamo stati soppiantati da milioni di utenti che generano gratuitamente i contenuti per cui fino a qualche anno fa eravamo pagati, ma loro, i nativi digitali, i nostri figli, saranno in grado di vivere con naturalezza questa nuova epoca, da cui ci sentiamo tagliati fuori.
Non è così, cari coetanei nati negli anni settanta: siamo noi in realtà a sapere cosa stanno facendo, mentre bruciano credito telefonico e futuro con l’aria imbambolata, cedendo i loro dati in rete gratuitamente e prosciugandosi le opportunità di lavoro, mentre ridono con gli occhi spenti. Rimbocchiamoci le maniche e insegniamo ai nativi digitali come rompere le catene della loro moderna, trendy e intelligente schiavitù.
Immigrati digitali di tutto il mondo unitevi.