Da oggi inauguriamo la rubrica «Parole al vento» curata da Enrico Settimi, un viaggio disincantato nell’ingarbugliato lessico della comunicazione.
Le parole che stimolano la nostra pigrizia mentale inceppano il ragionamento e danno un leggero inutile sollievo a chi le scrive, le pronuncia e a chi le legge e le ascolta.
Sono le parole che “vanno per la maggiore”: esattamente come tutto “ciò che va di moda”, non ci dicono nulla di chi le utilizza, né dell’oggetto che sottendono. Servono solo ad un ammicco che crea empatia. E quell’empatia serve a vendere la parola stessa, senza significato. In un circolo di autoreferenzialità sconfortante.
Il linguaggio della “comunicazione”, di cattiva qualità per colpa di chi lo inventa o dei suoi committenti, sia quello dello storytelling aziendale o quello dell’advertising, abusa di queste parole, perché spesso l’oggetto da comunicare non c’è, sostituito da un pastoso blob in cui dovremmo sentirci tutti al caldo, uniti e protetti. Mentre soffochiamo.
NET-ECONOMY
Dite “Net-Economy” ad un convegno di qualunque settore e avrete vinto. Applausi scroscianti.
Il pensiero dell’uditorio correrà felice alle App per condividere informazioni, contenuti, case, posti in auto. Oltre a razionalizzare spese e attività inquinanti, La Net-Economy nella sua particolare declinazione di Sharing-Economy sta anche distruggendo antichi e odiosi privilegi: tra gli autisti free-lance Uber e i tassisti sono molto più simpatici i primi. Fin qui tutto bene.
Come diceva l’uomo in caduta libera dal decimo piano, arrivato in prossimità del terzo.
Un lavoratore di Uber però, non ha assicurazione, non ha tutele sindacali ed è sottopagato, lo dice il New York Times, non Rude Pravo.
Ops. ecco i danni collaterali. La net-economy – pare – sta erodendo i redditi della classe media, che si proletarizza, perde diritti, e lo fa col sorriso ebete di chi taglia il ramo su cui è seduto.
L’industria dei libri ai tempi di internet, ad esempio, pubblica qualunque cosa, e poi viene demandato alla rete e al ruminar dei like la selezione e la promozione che un tempo faceva l’editore, investendo denaro e creando lavoro. Col risultato probabile di un appiattimento sull’intrattenimento che fa grandi numeri e di una gran mole di lavoro gratuito fatto dagli utenti: l’ha scritto in un bel libro Alessandro Gazoia, alias jumpinshark.
La Net-economy consente a poche multinazionali utili sproporzionati rispetto ai pochissimi lavoratori che occupano stabilmente.
Come nuovi feudi sono nutrite e sostenute da un esercito di servi della gleba che lavorano quasi gratis e in modo precario. Lo dice con piglio insolitamente giacobino Forbes, affezionato al capitalismo, non al feudalesimo. Allora perché la net-economy piace tanto? Probabilmente la vulgata neo-liberista contro Stato, leggi e cittadinanza, inaugurata da Reagan e Thatcher nei primi anni ottanta, è riuscita in un’operazione piuttosto complessa e perversa: non ci si percepisce come cittadini, ma come consumatori.